A fine anno è quasi impossibile resistere alla voglia di dire, almeno una volta e in tono di ciampesca solennità: “È tempo di bilanci”. E sferrarne uno tra capo e collo a chi ti ascolta.
In anni normali converrebbe trattenersi: la formula è banale e abusata, di quelle che valgono l’inclusione nei penosi ranghi di chi dice “vecchie lire” e chiama “problematiche” i problemi altrui. Ma quest’anno è diverso: grazie a Cirio e Parmalat è davvero tempo di bilanci, è letteralmente tempo di bilanci; e la creatività attiva dei vari Tanzi unita a quella passiva dei vari Spaventa (gente al cui paragone il pur fantasioso Tremonti sembra D’Alò in confronto a Disney) tinge di ludico qualsiasi esortazione a farne, assimilandoli ai giochi di società che le anfitrione festive propongono agli ospiti stremati dal cibo. Tentazione irrefrenabile per questa rubrica, che, dopo aver pazientemente accumulato il fior fiore del disavanzo poetico del 2003, smania di trovare alibi contabili per ridurlo al pareggio consigliando un altro po’ di poeti a chi vi avesse trovato troppi poetastri.
Detto, fatto. Fra le passività più scabrose dell’anno poetico svetta il tragico Gatto lupesco di Sanguineti (“TOrri, TOrtelli, TOtani, TOssine | NIcchiano NIdi, NInnano NInfetti, | NOn NOminando NOtti NOvembrine || CONtrastano CON CONcavi CONfetti | TEste TEatrose, TEnere TErrine”), seguito a ruota dagli svaporati baloccamenti di Rap 2 di Arbasino (“Magritte in via Margutta. | Ingres e Ingrao da Cesaretto, | in Via De La Croix. Mentre Géricault | suona la tromba intrepido | a Gerico; e Corot | gira Via dei Coronari con Courbet”) e dallo sprezzo del ridicolo metaforico mostrato tanto dalla Spaziani (“Piedi congiunti al sesso. A camminare | furono destinati, non solanto: | centraline sensibili si accendono | e salgono se pensi a un solo nome”) quanto da Cucchi (“Mi infilo nel portafogli del mio letto | come una carta d’identità scaduta”).
Più che di passività si tratta in effetti di attività fasulle, data l’evidente inesigibilità del credito accordato per anni a questi autori: roba che già da sola affosserebbe qualsiasi impresa. Ma al rosso abissale del nostro 2003 hanno contribuito, e non poco, anche i versi improvvisati di poeti provvisori: le “struggenze” di Toni Maraini, l’anoressia lirica di Carmen Llera, l’imbarazzante satiriasi di Sebastiano Grasso, la bolsa anticaglia da “flessuosi cipressi” e “fuggevoli ombre” di Renato Minore.
Autentiche pietre miliari dell’impoeticità, il cui peso complessivo annichilisce quello della manciata di pur ottimi autori con cui, da Emilio Isgrò a Roberto Deidier, abbiamo rimpolpato appena possibile la colonna dei profitti. E allora eludiamo i criteri di pertinenza che fin qui ce li avevano fatti escludere, e accreditiamo pure – tardivamente, surrettiziamente, cragnottescamente – i versi feroci di poeti teatrali (i drastici endecasillabi della Teodia di Ludovica Ripa di Meana); i versi asimoviani di comici inglesi non tradotti per troppo genio (Love cuts di John Hegley, ed. Mandarin) e quelli walseriani di prèsidi svizzeri tradotti ad hoc (“Ho degli alberi la magrezza di radici, il fervore | dei rami. Dell’amore, la schiena dritta.” Luc Wenger, ed. L’age d’homme); i versi struggenti di poeti nascosti (“…uno di quei nostri viaggi | che mi fanno sobbalzare il cuore | perché sempre mi dico sarà l’ultimo | e tu cerchi di confortarmi, la sera, | nel letto, col tuo culo sodo e caldo | che io accarezzo, e il ventre | pieno di dolci ricordi || su cui fatico | ad addormentarmi, ormai.” Angiolo Bandinelli, ed. Stampa Alternativa) e perfino i non-versi di non-poeti (la folgorante e poeticissima teoria dei “cammellini della memoria” di Filippo Martinez, introvabile in libreria ma facilmente reperibile in rete).
Se poi qualcuno, brandendo il glorioso addebito del “non poteva non sapere”, dovesse accusarci di aver firmato conti truccati, potremo sempre tentare di riesumarne la rilettura agnelliana: “poteva tranquillamente strafottersene”.
Auguri e poeti veri.
---------------------
Annata d’oro
per i poetastri.
Versi d’artificio.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 27 dicembre 2003