Walser, versi con voce propria e splendida. Arbasino, prosa rap svampita e baloccante

Ha lasciato l’uomo che amava da dieci anni. L’ha lasciato per semplice esaurimento di amore. È successo pochi giorni fa, e lui, con una compostezza per lei comoda ma che in realtà già comincia a pesarle, si è limitato a mandarle dei versi: “Di nuovo mani stanche, | di nuovo gambe stanche, | un buio senza fine, | rido così forte che le pareti | si girano: ma è un inganno, | in realtà piango”. Versi di Robert Walser, autore che lei conosceva per I fratelli Tanner e La passeggiata, ma che come poeta ha scoperto e amato proprio a casa sua, nella recente edizione di Casagrande troneggiante su quel comodino che difficilmente vedrà ancora. Sicché è venuta a cercarla in libreria, e, pur con qualche difficoltà, la trova.
Sono poesie che conosce a memoria, ma non resiste alla tentazione di lasciar cadere subito lo sguardo su qualche verso a caso. Sa che, per un prodigio che riesce solo alla grande poesia e alla Bibbia, i versi in cui si imbatterà incarneranno proprio quella realtà immediata che fin qui s’è accanita a non lasciarsi riconoscere.
“Spesso mi vedo far cenni a me stesso | e a me stesso sfuggire. | (…) Sono destinato a vagare | in spazi dimenticati.”
Un po’ si vergogna, di questo consultare i versi a mo’ di tarocchi: fa tanto new-age. Però funziona, e serve. Quando i versi hanno voce propria, e per giunta splendida, a farli significare è il lettore; e questa è una delle cose più preziose della poesia: è ciò che la rende comunicativa, dunque accessibile e utile.
“Faccio la mia passeggiata, | essa mi porta un poco lontano | e a casa; | poi, in silenzio e senza | parole, mi ritrovo in disparte.” E ancora: “Nel cuore stanco | si aggirano, come al solito, | dolori antichi. || Devo frenare | la voglia di piangere, | insieme ad altre cose.” “Com’è piccola qui la vita | e come grande è il nulla. | Il cielo, stanco della luce, | ha dato tutto alla neve.”
Un’ultima strofa le torna in mente di getto, istintiva come ogni ricerca di appiglio: “Non sono più preoccupato | poiché posso, integro, attraversare | il mondo come mondo.”
Prima di allontanarsi con in mano l’adorato Walser, vede lì accanto Rap 2, di Arbasino. Ha riletto da poco la sua Bella di Lodi, edita da Adelphi, che l’ha incantata forse ancor più della prima volta. Dà un’occhiata.
“…il buco del culo degli elefanti | si schiude carnicino, | come i petali | di una rosa ‘tea’ delicatissima, | prima di espellere, cilindrici | gli escrementi aromatici | usatissimi dagli indigeni | per i suffumigi terapeutici.”
Un’altra occhiata: “Ai bei tempi di Piazza Navona, | sedendo al Caffè Sodomiziano, | si vedevano passare oconi, | anatroni, galline, tacchini, | topini, topucci, topastri, toponi, | cavallone e gattine. Alani. Paperi. | Anguille e gorilla. Fringuelli…”
La controcopertina parla di “poesia civile”. Di civile, a dire il vero, non ci trova molto; quanto alla poesia, poi, questa le sembra più che altro prosa tagliata con l’accetta.
“Fare i pensatori, | in Italia, son cavoli. | Ma per gli addetti ai non-lavori | non si tratta di impossibilità | congenite e durevoli | come l’incapacità | di comporre sinfonie a sud del Brennero.” “Pina e Pupa pepano il pesto | per il pasto del Papa; e lo spupazzano | fra pipe e pere a Pisa… Il pope impazza?”
Proprio non se l’aspettava, Arbasino ridotto agli svampiti baloccamenti di un qualsiasi Sanguineti. “Magritte in via Margutta. | Ingres e Ingrao da Cesaretto, | in Via De La Croix. Mentre Géricault | suona la tromba intrepido | a Gerico; e Corot | gira Via dei Coronari con Courbet | fra le Goghe di Van Gogh | e le Magoghe di Gauguin.”
Sfoglia ancora, e legge ancora: ma anziché rap trova goffi calchi di un Paolo Poli bamboleggiante su quel Kurt Weill in salsa di Rota che sono le marcette di Piovani, trova il kusturikismo da hangar kosovaro degli allestimenti di Dodin, trova la sterile nazi-pompa delle messe in scena di Nekrosius, trova… Si accorge di arbasineggiare, sicché smette subito e si avvia verso casa, felice del Walser ritrovato.

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Arbasino hip-hop:
Rap II,
la disfatta.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 14 gennaio 2003

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