Sarà perché qui parla di cose che sente davvero, come il calcio; e non di quel che sente di dover sentire, come nei romanzi e nei comizi. Sarà perché manca da tempo dalla ribalta politica, quindi si lascia leggere senza che in filigrana incomba la sua figura di ossimoro vivente – comunista ma yankee, buoneggiante ma astioso, primo della classe ma plurirespinto. Fatto sta, caro lettore, che se compri Quando cade l’acrobata entrano i clown (Einaudi), ennesima prova letteraria di Walter Veltroni, resterai deluso soltanto se speri di trovarvi occasione di ludibrio, come per le sue opere di narrativa. Perché qui l’indimenticato doppiatore di Rino Tacchino non solo si cimenta con la poesia, ma lo fa sorprendentemente bene.
Veltroni traduce in poema civile il disastro colposo dell’Heysel, che uccise 39 tifosi e ne ferì 600 durante una finale di Coppa a Bruxelles. Comincia descrivendo i supporter juventini – e se stesso tra loro – che affluiscono pacifici e festosi, come “una specie di legione straniera di brave persone”, sugli spalti dello stadio fatale. Poi illustra con versi di inattesa asciuttezza i prodromi del disastro: dall’involontaria e funesta contiguità fisica coi tifosi avversari, belluini e maneschi, all’impossibilità di arginarne l’urto sanguinario (“Noi non siamo uno scoglio, siamo un lungomare… / siamo bagnanti in un terremoto”). Infine approda, senza quasi perdere compostezza nel verso e negli accenti, alla descrizione della tragedia avvenuta, indugiando su figure struggenti – come la figlia di un ferito che lo guarda muta, quasi volesse implorarlo di cancellare l’accaduto e farla tornare a “quando tutto era normale, / prima che lei diventasse capofamiglia di un padre svenuto”.
Certo, qua e là (oltre a qualche desolante svarione, come i capelli “riavviati”) disturba l’impostazione amatoriale del poetare: le fuorvianti maiuscole in capo al verso, certi sgambetti di strofa che rompono il senso. Ma sono inciampi da poco, specie se confrontati con la produzione degli altri VIP prestati alla poesia, incapaci di padroneggiarne la forma e inchiodati alla lagna di amori anagraficamente asimmetrici, quindi sfigati. E forse a salvare Veltroni è proprio questo: abbastanza anziano da sentire il richiamo della poesia, ma troppo giovane per dedicarla a ninfette riottose, anziché cantare amori senili canta il vero amore della sua vita: quello pre-maturo per il calcio. E se ogni tanto fa capolino Veltrone l’Africano col suo facile moraleggiare ex post, è anche qui roba da poco: schegge di farisaismo che a malapena si notano nel flusso sincero, quindi efficace, di un racconto così sentito da generare belle immagini e perfino suoni di autentica poesia.
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In Africa no
né a Palazzo Chigi.
In Arcadia Uòlter.
Articolo di Sergio Claudio Perroni del 16 maggio 2010 per Libero