Ha spesso sentito dire che ogni italiano ha un libro di poesie nel cassetto, e che al minimo accenno di concorso per poeti in erba è pronto a sfoderarlo e brandirlo con la certezza d’essere Petrarca. Un libro intero forse no, pensa: ma una decina di poesiole bell’e pronte, unita a una gran disponibilità a improvvisarne spudoratamente qualcuna al primo stormir di sentimenti, forse fa davvero parte del nostro corredo genetico.
Fenomeno difficile da spiegare, visto che fra le prime cose che s’imparano a scuola c’è l’odio viscerale per la poesia, scelta male e insegnata peggio. Né il suo prosperare può aver molto a che vedere con l’appartenenza a un popolo di poeti e santi e navigatori, ché altrimenti nel famigerato cassetto ci sarebbero anche sestanti e aureole di latta. Ma il vero problema, rimugina mentre in libreria sfoglia l’ultima raccolta di Maria Luisa Spaziani (che sul risvolto viene presentata innanzitutto come Presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale nonché del Premio Montale), il vero problema non sono i versi nel cassetto, che lì rimangono e dunque non fanno male a nessuno, bensì quelli al cassetto evidentemente destinati e che invece qualcuno incautamente pubblica.
La traversata dell’oasi, si intitola la raccolta del bi-Presidente; ed è un gran bel titolo, purtroppo svilito già in partenza dalla chiosa che gli fa da sottotitolo: “Poesie d’amore”. Quel “d’amore” aggiunto a “poesie” gli suona pleonastico, dunque sospetto come tutto ciò che voglia troppo apparire per poter davvero essere; e specialmente lo trova poco poetico.
La poesia non nasce forse dalla passione, e non è forse la forma letteraria che più d’ogni altra sappia e voglia esprimere la passione? Sicché “d’amore” la poesia non lo è comunque e sempre? dell’amore del poeta per l’agente della passione nonché oggetto del poetare, gnocca o Dio o libertà dei popoli che sia?
Gli tornano in mente alcuni dei versi randagi in cui si imbatte da qualche tempo e cui deve quest’improvvisa sete di poesia come ristoro dell’anima: “…saggezza d’Iddio | che fece tutto ciò: senza dire di sé | son ruga, son vecchio, son legna | son cerchio che il bimbo salta.”
Li ha letti sul diario di un’amica, li ha scritti un poeta che si chiama Aldo Mazzei. Uno che, dopo una fugace apparizione su Nuovi Argomenti, non essendo presidente di nulla non riesce a fare uscire i propri versi dal cassetto. Eppure i suoi non sono i versi tipici del dilettante: non trasudano immagini logore e formule trite, non ospitano bocche che, nel 2000, si vedono ancora costrette a sembrare anemoni di mare, e stanze dove invariabilmente aleggia il profumo di lui/lei, e guance dove immancabilmente persiste il calore delle labbra di lui/lei, fulmini che serpeggiano, inquietudini che serpeggiano, chiavi d’oro & relative serrature, notti puntualmente dotate di cavalli neri… Luoghi comuni che il nostro cercatore di poesia crede d’aver scovato nella propria memoria di poetastro liceale, e che invece scopre di avere molto più semplicemente sotto gli occhi, dal primo all’ultimo, sventagliati proprio dalle sedicenti poesie d’amore della Spaziani, insieme a sensazionali scoop creativi quali lo zero “che in sé è il nulla, ma se segue un numero | lo può moltiplicare all’infinito” e ad amenità cardiovascolari tipo il chiedersi “sarà stato intermittente il cuore?”.
Cerca comunque di resistere ancora per qualche verso, illuso da un accenno finalmente di musicalità e dal soprassalto lirico di un “so che mi stai sognando, mi accarezzi, | i globuli lo sanno del mio sangue”. Ma già il successivo verso lo stronca, sprigionando la madre di tutti gli stereotipi eil padre di tutte le immagini poetiche che, insieme alle omonime licenze, hanno giustamente procurato decenni di pessima letteratura alla poesia: “ogni mio nervo teso come un arco”.
Nel riporre il libro sullo scaffale, estende allora a tutta l’opera il rammarico che l’immodesta autrice riserva al solo aver detto un tempo “ti amo”: “Ho usato parole comuni. Avrei dovuto cantarlo | con gli ultrasuoni dei gufi, con arpe celesti | con lo schianto intraducibile del mare”.
Appunto: il non ancora presieduto Eugenio Montale avrebbe mai dato per “intraducibile” lo schianto del mare?
È una parola
la poesia.
Spaziani in love.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 28 dicembre 2002