L'italiano in croce della Santacroce

Caro lettore. Hai tempo da perdere e soldi da buttare? Allora il libro che hai in mano è fatto apposta per te. Secondo l’editore Rizzoli, questo Lulù Delacroix di Isabella Santacroce “unisce la dolcezza del Piccolo Principe, il fantastico di Alice nel paese delle meraviglie e l’inquietudine di Pinocchio”. Tutte frottole, come puoi ben immaginare. Ed è strano che il sobrio editore non abbia tirato in ballo anche Moby Dick e la Divina Commedia; tanto, mancando una legge che punisca per lesa maestà i riferimenti alti accampati da autori minuscoli, qualsiasi paragone a vanvera è lecito. In effetti, nel libro della Santacroce ci sono molte a, un buon numero di t e parecchie vocali con l’accento – proprio come nei libri di Saint Exupery, Collodi e Lewis Carrol. Ma le somiglianze finiscono qui. Per il resto, caro lettore, in queste interminabili 470 pagine troverai solo un’ennesima e noiosissima versione del mito di Cenerentola virato in Brutto Anatroccolo. Troverai la mostriciattola Lulù che, scappata da una famiglia che la rifiuta (ci sono pure le sorellastre cattive, giusto per dare un pizzico di originalità in più), intraprende un viaggio fiabesco insieme a una petulante bambola storpia e con l’accompagnamento vocale di Emily Dickinson (già: l’asiargento della narrativa italiana non lascia in pace neanche la povera reclusa di Amherst, straziando le sue sacre poesie per farsene contrappunto). Troverai i mondi che le due eroine visitano prima di approdare all’ovvio lieto fine, reami incantati dove si aggirano strani mutanti che si vorrebbero favolosi, cui però né stranezza né favola impediscono di sventagliare ciarpame sapienziale da banchetto di tarocchi in Piazza Navona (“la purezza è una lente d’ingrandimento posata sopra la luce”, “non vergognarti della tua diversità, amala”, “la vera bellezza mai si mostra, ed è per questo che tutti la cercano”). E troverai figure di forzata bizzarria quali la Farfaspilla, il Pipistro, il Cricervo (sì, siamo nei paraggi di Benni – e di un Benni perfino minore).
Ma la figura più bizzarra di tutte, l’unica mutante che in questo serraglio strappalacrime riuscirà davvero a farti tenerezza, caro lettore, è un’altra. Sottoposta a traversie efferate (gente che “svenì”, chiome “ravvivate”, palpebre che “divedono da una visione”, miracoli anatomici come il “sospirare con affanno”), costretta ad anastrofi che persino un pastore del Gennargentu troverebbe avventurose (“la vita di sé il presente dimentica”), oberata da gerundi insani e crivellata di elisioni adottate sperando di sembrar forbita, è la lingua italiana la vera Cenerentola di questa fiaba. O meglio, il cigno che la Santacroce riesce a far regredire a Brutto Anatroccolo – senza dover ricorrere ad alcuna magia.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 10 aprile 2010 per Libero

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