Può darsi che tu, cara lettrice, abbia un animo poetico, e sia tentata di comprare questo L’arte di leggere la poesia (Rizzoli) perché pensi di trovarvi cibo per la tua passione. O forse perché sai che l’autore, Harold Bloom, gode di transoceanica fama di “sommo sacerdote” della critica letteraria. O magari ad attrarti è la sconvolgente bellezza delle parole virgolettate nel risvolto ufficiale, lì dove si definisce la poesia un linguaggio capace di rinnovare “i contorni più sottili delle parole”. Ma prima di passare alla cassa, prima di perpetrare l’acquisto, cara lettrice, sappi che queste sublimi parole sono un’esca marcia, poiché non le ha scritte Bloom, come lascia credere la mancata attribuzione, bensì Walter Pater, lui sì vero poeta nella critica. E sappi che sono fasulle perfino le lusinghe del titolo, giacché, anche a voler ammettere che leggere poesia sia davvero un’arte – e non una virtù d’esperienza –, questo libro non solo non la insegna, ma neppure la illustra. Insomma, cara lettrice, sappi che quello che hai in mano è un bidone.
D’altronde, come può parlare di versi in maniera credibile – o, ancor peggio, avviare a leggerli – un tapino che si soffermi sulla poesia solo per inseguirne la prosaicità, e che anziché gustarne l’assoluto si affanni a rintracciarne il relativo? In ciascuna di queste poche – e comunque troppe – pagine, Bloom tratta la linfa poetica come mero prodotto di una digestione letteraria; simile a un medico legale alle prese con una salma, egli sottopone ad autopsia questo o quel poema, ne individua gli antefatti, ne recinta i contesti, e poi, sbandierando giulivo il menu delle influenze letterarie che crede di aver scovato nelle viscere dell’autore, commenta i versi solo alla luce di questo desolante computo gastrico.
Metodologia spoetizzante, cui peraltro non giovano gli strumenti critici a dir poco imbarazzanti esibiti da Bloom. Per esempio quando afferma che “in Shakespeare il pensiero si può considerare tragico o comico, o di qualsiasi sfumatura intermedia” – rivelando un rigore analitico pari a chi dicesse: “amo i capelli biondi o bruni, o di qualsiasi tinta tra l’oro e il corvino”. O quando spiega la sineddoche come sostituzione “di una parte con il tutto” e dimentica il contrario, ossia il tutto rappresentato da una parte. Ma dev’essere dimenticanza freudiana, visto che a incarnare questo tipo di sineddoche è il suo stesso libro, dove il gran tutto della poesia è sostituito da una parte. Tanto infinitesimale da sembrare fortuita.
Articolo di Sergio Claudio Perroni del 29 maggio 2010 per Libero