Qualche giorno fa le è capitato di leggere due adorati versi dell’adorato Eliot maciullati da Vittorio Zucconi sulla prima pagina di Repubblica.
Certo, si è detta: siamo in democrazia, quindi uno è liberissimo di fare l’inviato negli USA nonostante i suoi noti dissapori con la lingua inglese e i frequenti screzi con quella italiana. E poi la poesia è come i figli e il sesso: chiunque si sente abilitato a farne. Come se non bastasse, per americani e inglesi Eliot è pane quotidiano, quindi se hai il vezzo di mietere idee dai giornali yankee te lo ritrovi fra i piedi un articolo sì e uno no – a maggior ragione quando si tratta di quell’inno nazionale dell’incubo americano che è il finale de Gli uomini vuoti: “È questo il modo in cui finisce il mondo | È questo il modo in cui finisce il mondo | È questo il modo in cui finisce il mondo | Non con uno schianto ma con un gemito.” “Not with a bang but a whimper.”
Sembra fatto apposta per parafrasi a buon mercato: al posto di “mondo” puoi metterci “amore” o “vita” o “Dio” o “batteria del cellulare” o quel che ti pare, e la tua porca figura la fai di sicuro. Puoi persino metterci “guerra”, come ha fatto Zucconi: nel mondo anglosassone non sarà il colmo dell’originalità, visto che in questi giorni ci ha pensato anche l’ultimo editor di gazzettino universitario; ma qui da noi – dove per molti lettori ciò che capita dal sommario in poi è comunque stampa estera – fa fino.
Però a tutto c’è un limite: puoi anche non aver mai letto Eliot, ma se non sei Paperoga o Wile Coyote non puoi tradurre “bang” con “bang”. E se lo fai, cioè se sulla prima pagina del primo quotidiano italiano non ti vergogni di voltare in lingua di Cartoonia quel mirabile verso trasformandolo in “non con un bang ma con un sospiro”, allora al posto del sospiro devi mettere l’equivalente inglese, che non è l’originario “whimper” bensì un bel “sigh”, perfetto per fare il paio con “bang”. E a quel punto faresti bene a firmarti “arf arf”.
Allora, per rifarsi un po’ la bocca, ha comprato Poesie ritrovate, l’ultimo Luzi, che in realtà è quasi il primo: si tratta infatti di una trentina di poesie inedite smarrite e avventurosamente ritrovate, che Garzanti ha pubblicato in questi giorni a quasi settant’anni dalla composizione.
“Perdono pe’ nostri dolci peccati | Per avere spesso guardato | Teneramente dissiparsi il giorno | Dall’ombra e il silenzio dei casini |Sognando di andare con una fanciulla | Senza seni lungo l’Arno rosa | E la voglia di piangere racchiusa | Nel cuore come un’onda preziosa”.
Non sarà il coevo Gli uomini vuoti, ma per essere produzione giovanile le sembra addirittura meglio di quella senile – e sicuramente meglio dei vari Minore che Luzi incautamente avalla nella collana di poesia della Passigli.
Certo, immaginare “nocchiuta” la verginità che le fanciulle sciolgono “dentro viluppi d’atroce silenzio | come per opache valli d’inferno” le riesce difficile e anche un po’ ripugnante; e il pur toccante “E i fanciulli | farsi grandi come a foglia | a foglia i rami verso l’autunno” sa di altri e più riusciti versi. Ma sono cadute di tono abbondantemente risarcite da perle come “Risollevando gli occhi da un profondo | diluvio al sole | le creature intente | subiscono ardendo il presente”, o come “I bimbi co’ fluviali occhi di latte | strappano il fuoco della vita | alle pupille | delle bianche genitrici estenuate, | crescono come placide onde al sole | i padri vi si specchian declinando.”
Prima di richiudere il libro si sofferma sull’attacco dell’ultima strofa di una poesia dall’incongruo titolo Joan Crawford: “Luce e danza come ali di vespe”. Sorride immaginando la versione di Zucconi se quel verso l’avesse scritto Eliot: “Luce e danza come ali di bianchi, anglosassoni e protestanti”.
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Dopo la prosa,
Zucconi imbratta Eliot.
Lesa poesia.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 26 aprile 2003