È un dato di fatto: quando hanno molto tempo libero, gli uomini di una certa età ne passano gran parte a scrivere poesie o a dipingere quadri (ce n’è persino che fanno l’uno e l’altro: in quel caso, però, più che hobby è perversione). Potrebbero suonare il pianoforte, o pescare lucci, fare alpinismo, perfino scrivere romanzi (“C’è chi taglia o cuce brache, | chi leoni addestra in gabbia, | chi va in cerca di lumache | … | io fo buchi nella sabbia” scriveva il grande Ernesto Ragazzoni): ma sono tutte occupazioni per cui occorre una preparazione specifica, dunque comportano fatica – o quantomeno cultura.
Poesia e pittura, invece, è opinione comune siano accessibili a chiunque – senza aver maturato competenze, senza essersi intrisi di maestri antichi e averli filtrati coi contemporanei, in fondo senza nemmeno bisogno di passione. Basta che in gioventù qualche incauta zia o mamma abbia bollato di “sensibile” il soggetto (“Ma com’è sensibile questo ragazzo!”), ed eccolo legittimato a scoprirsi prima o poi “portato” a esprimere in versi o su tela la propria asserita sensibilità, come da bambini ci si scopre portati per lo sport o le lingue, e da adulti per gli affari o la topa. Con la differenza che, per esempio nel caso di quell’emblema di uomo oberato d’anni e tempo libero che sono i senatori della Repubblica, la valutazione della presunta attitudine artistica è sempre viziata dall’assenza di riscontro obiettivo.
Difficile, infatti, immaginare i rassegnati famigliari accogliere l’ennesima opera del senatore di turno con un “Amintore, ma cos’è questa crosta?”, o gli indulgenti colleghi prenderlo da parte al vernissage e sussurrargli “Dammi retta, Ottaviano: la pittura non fa per te”. Ragion per cui, anziché coltivare altri e più consoni svaghi (“…combattete il beri-beri, | allevate ostriche a Chioggia, | filugelli in Cadenabbia, | fabbricate parapioggia, | …| io fo buchi nella sabbia”), essi continuano imperterriti a imbrattar tele e raffazzonare versi. E, non essendo più pischelli, è difficile e forse inutile spiegargli che sarebbe più decoroso lasciar perdere.
Se però si riuscisse a prenderli in tempo, magari da semplici deputati, qualche speranza di convincerli a desistere ci sarebbe.
L’onorevole Nicky Vendola, per esempio. Fresco autore di una raccolta di poesie intitolata “Ultimo Mare”, egli è un classico caso di bravo figliolo ridotto alla poesia da remoti e mai risolti addebiti di sensibilità. Gli capita di pensare cose intense e perfino toccanti (“Occhi tupamaros che piangono | gocce di chemio | e di rimmel. | Questa donna che spacca il muso | pure agli angeli”), ma sono schegge di sostanza avvilite da una forma tanto approssimativa da esporle a costante rischio di astrusità (“Solo la salvia conosce i segreti | fradici di grammatica | degli astri femminei che muti vagano | nelle tue cosmogonie”). Anzi: più in alto il sensibile Vendola mira col senso, più la povertà della sua prosodia ne fa strage.
La stolida cantabilità del settenario giambico, per dirne una: può anche funzionare per catalizzare l’ecumenismo sempliciotto della denuncia sociale (“Lamento in morte di Carlo Giuliani”), ma se poi continui a ritrovartela fra i piedi, a sproposito e per giunta con accentazioni il cui pleonasmo ha tutta l’aria di un Braille ritmico (“Non credere che i giorni | dei laghi e dei pantàni | s’intrighino ai ritorni | e mutino in volàni | in cavallucci storni | in astri assai lontani”), capisci che non si tratta di una scelta espressiva bensì dell’unico modello formale disponibile nel carnet dell’autore. Cui poi si aggiunge, a completare il ritratto dell’auto-poeta rimasto alle letture coatte del liceo, l’immancabile culto necrofilo di formule putrefatte e parole auliche (“colmar”; “disseccar”, “audisco”, “miro”, “sembiante”, “abbruna”,perfino un dannunziano “sidereo”).
Non sono difetti da poco, ma può darsiche Vendola, da qui a quando diventerà senatore, riesca a liberarsene. Frattanto gli conviene comunque provare coi buchi nella sabbia.
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Di giorno legifera,
poi ahimè versifica
Vendola by night
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 29 novembre 2003