Maria Luisa Spaziani rischia quella che un economista marxista chiamerebbe una crisi di sovrapproduzione. “In sei mesi io ho scritto duecento poesie”, confessa in uno dei versi della nuova silloge, La luna è già alta; come a dire, poesia più poesia meno, l’intera produzione lirica di Mallarmé, Eliot e Hofmannsthal messi insieme. Ed ecco la cronaca di un’altra cucciolata: “Mi sono nate, oggi, ben cinque poesie. | Tutte belle, vitali, dettate dal mio angelo. | Da tre mesi non riesco a fermare la penna. | Sotto il raccolto quasi sprofondano i granai”.
Da dove origina un tale prodigio? Come mai ci sono poeti che patiscono la sterilità e la secchezza, timorosi di non trovar versi all’altezza della perfezione glaciale del foglio bianco, mentre altri, come la Spaziani, sono benedetti da una inarrestabile incontinenza endecasillabica? Quale arcano e capriccioso dio giansenista presiede alla distribuzione delle grazie poetiche?
Il segreto di questa fecondità debordante, a ben vedere, non è teologico, e ha poco a che fare con pani, pesci o la moglie sterile di Abramo; rientra piuttosto nel novero dei segreti industriali. Il metodo è presto svelato: s’imbastisca un canovaccio semplice e duttile a un tempo – nella fattispecie, quartine di endecasillabi a coppie – e si prenda a ricamarci sopra immagini più o meno liriche, rarefatte, seriche, impalpabili, attinte al repertorio delle “parole poeticissime e piacevoli” inventariate nello Zibaldone. Il risultato sarà perfettamente gradevole, e perfettamente insapore.
A volte, di queste poesie si apprezzerà la grazia e la buona fattura; mai se ne avvertirà la necessità, l’urgenza imperiosa di venire alla luce. Qua e là, poi, sul suo canovaccio la Spaziani monta un’accozzaglia di immagini sgraziate, alla rinfusa: “Gli alti rami, direttori d’orchestra, | ritmano il crescendo delle nuvole. | Atletici si piegano, si arcuano, si tendono. | Mosse da karatè. || Stanno pregando, come gli sciamani. | Invocano, minacciano, esorcizzano. | Non piove da tre mesi. Questi tuoni | saranno vane gravidanze isteriche?”. Un groviglio di metafore, per lo più infelici, che si spintonano l’un l’altra e finiscono per elidersi.
Altri versi sembrano partoriti da Donna Clorinda Frinelli, damina foscoliana di una satira del Gadda, tutta palpiti lirici e ispirati vagheggiamenti di un’Ellade gessosa e marmorina: la poetessa che è “figlia dell’Oceano, nata | sulla sponda di un mare troppo piccolo”, la luna che nell’immemoriale Urzeit di chissà quali origini era “vergine”. O, peggio, svenevolezze dannunziane adattate all’Era dell’Acquario: “Le Sirene risucchiano nei regni | sottomarini del puro piacere. | Musiche, orgasmi, trascendenze”.
Altrove è all’opera un kitsch spiritual-liturgico che fa rimpiangere il tardo Huysmans, un’aura melensa di bondieuserie, dove par di vedere in agguato quegli angioloni con il liuto che oggi si stampano anche sullo scottex: passeri che volano “con piume d’argento”, l’acqua che ha “voce angelica”, l’anima che è una “celeste fisarmonica”; impercepiti inizi e primavere che sono sempre “presagi” e soprattutto “promesse”, rami che sono “corde d’arpa” (ma anche i nervi, qualche pagina dopo, sono “corde d’arpa”). Fin quando, di corda in corda, sfogliando, apprenderemo finalmente che “non ci sono altre corde al mio violino”… Rilevazione presto smentita, giacché il martellamento monometaforico continua: “Il violino scordato si accorda | tutto solo una corda”.
E poi le sentinelle: sentinelle ovunque, come non se ne trovano neanche nel De bello gallico; le stelle sono sentinelle, ma anche l’abete è una sentinella, e anche la fata cattiva sta di guardia in garitta. “Ripetere, non faccio che ripetere”, confessa la poetessa in un abissale momento della verità.
Che dire? È manierismo manierato, boldinismo letterario, stimolazione di “effetto” poetico per mezzo di uno sfumato posticcio suggerito da parole liriche e indefinite. La stessa Spaziani, in un’intervista recente, lo svela: tutto può essere poetico, assicura, dipende dall’“alone” che metti intorno alle cose. Ma gli aloni, o aure, non si “mettono”, non sono un profumo in bomboletta: si percepiscono, o si tace. Voler suscitare il numinoso disponendo sul foglio bianco le parole che lo designano è negromanzia.
La Spaziani si chiede poi se arriverà mai a scrivere L’anguilla, il capolavoro del suo grande amico Montale. E si risponde: “Forse qualche anguilletta l’ho già scritta”. Forse l’ha scritta, in effetti; e per qualche decennio ha avuto il buonsenso di restare fedele (come una delle sue sentinelle) al nobile monolinguismo della nostra tradizione lirica, si è ostinata saggiamente a dirigere il suo quartetto d’archi mentre tutt’intorno impazzava un’orchestra cacofonica e assordante. Ma in questo La luna è già alta, spiace dirlo –malgrado qualche guizzo nelle tre sezioni “Filosofia figurata” – di anguille e anguillette non c’è traccia.
---------------------------
Rifrigge versi
la Spaziani ai fornelli.
Langue l’Anguilla.
Articolo di Guido Vitiello del 16 gennaio 2007 per Poetastri.com