Slam poetry, poesia per voci

Parliamo di slam poetry. Trattandosi di un fenomeno molto diffuso oltreoceano ma ancora poco noto in Italia, premettiamo una breve spiegazione per i lettori che non lo conoscano.
(“Non hai mai imparato | nulla | dai morsi di ieri | sempre sei | la polvere | sui giorni | di qualcun altro”)
Senza azzardare troppo, slam poetry si può ben tradurre con “poesia d’urto” – concetto che vien buono anche per i poetry slam, quegli “scontri” di poesia che ne costituiscono al tempo stesso l’habitat e l’anima.

Gli slam sono rigorosissimi tornei di declamazione poetica, in cui decine di concorrenti si sfidano di fronte a un pubblico di spettatori-giurati, leggendo o recitando i propri versi in turni da tre minuti; girone dopo girone, il pubblico li promuove o elimina votando (e vociando) fino a ridurre la sfida allo scontro diretto tra due poeti, dal quale emerge infine il vincitore dell’urto, della giostra poetica.
Già lessico e prassi danno l’idea di quanto nei poetry slam il poetico si avvalga del ludico. Un ludico in cui qualcuno potrebbe, con qualche accettabile forzatura, rinvenire le cause prime della poesia come interpretazione della realtà da condividere con un uditorio: mimesis a pieno titolo – e, dunque, autentico spettacolo.
Proprio la componente spettacolare degli slam (col doppio coinvolgimento dovuto al raddoppiarsi dei ruoli: poeta/esecutore, pubblico/giudice) rende alla poesia un servizio impagabile, mostrandola finalmente viva e vicina, arte corrente in quanto comprensibile e giudicabile. E non solo: la struttura spettacolare funge anche da efficacissimo filtro di velleità, facendo sì che quella declamata negli slam sia quasi sempre poesia vera. Il che, in un universo gremito di poetastri, ha del miracoloso.
("Ti osservo | in quest'ora di cielo | mentre esisti | senza di me | sto andando a perdere | ma vivo ancora")

Se infatti l’impudenza del poetastro non ha confini quando si tratta di ammannire in versione stampata i propri versicoli, la prospettiva di un confronto diretto, dal vivo, e con giudizio istantaneo, è un deterrente inesorabile. Vero è che il poetastro è ghiotto di premi da sciorinare in quarta di copertina, quindi di concorsi cui partecipare e di selezionatori da blandire; ma una cosa è mettersi in gara affidando il proprio libercolo alla compita lettura di giurie eventualmente addomesticabili, e tutt’altra è tenzonare declamando i propri versi al cospetto di un pubblico appassionato fino a essere scalmanato.
Certo, può capitare che qualche trombone imperterrito si avventuri comunque alla ribalta, pensando che i poetry slam siano una versione esotica dei recital di vanità – com’è successo quest’estate durante la prima edizione del “Grande Slam” di Naxos. Ma il pubblico di queste giostre poetiche ha la meravigliosa intransigenza di chi si senta competente per istinto, e così il trombone – trombona, nella fattispecie – non ha superato la prima selezione, e in finale sono andati due poeti veri: Cettina Caliò e Paolo Lisi. Dopo una lunga serie di tornate supplementari (negli slam, altra finezza di agonismo poetico, non esiste un equivalente del tie break: in caso di parità, i finalisti continuano a scontrarsi finché uno dei due non la spunta), ha vinto la Caliò, autrice dei versi che abbiamo citato in parentesi e che ritroviamo nella sua raccolta L’affanno dei verbi servili (titolo la cui bellezza patisce un’incolpevole somiglianza con quello del best-seller La solitudine dei numeri primi, pubblicato tre anni dopo).
Ecco, se c’è un problema con la slam poetry – a parte qualche fastidiosa esuberanza quando lo slam rischia di trascendere in rap – è proprio nel ritrovare stampati i versi ascoltati dal vivo. Il loro concantenarsi, perfettamente ritmato in scena, sulla pagina risulta spesso allentato da una scansione approssimativa, come se questi poeti, troppo assorbiti dall’esecuzione pre-orale dei propri versi, li riversassero sul foglio senza curarsi di quella strutturazione testuale – a capo pertinenti, maiuscole, e quant’altro stabilisca gerarchie almeno ritmiche – che occorre al lettore per poter ritrovare il loro stesso spartito intonazionale. Succede anche con alcune poesie della Caliò, che, private del chiaroscuro sintattico, in forma scritta perdono il formidabile dinamismo comunicativo di cui godono dal vivo grazie alla scansione naturale impressa dalla voce. Ma è un limite che nelle più brevi è appena percettibile, con effetti in cui la profondità sonora sembra quasi smaltare quella emotiva: “Fuori dalla porta | dei tuoi pensieri | abbracciata | me ne sto | alle mie ginocchia | un che di fiato | si frantuma | nel riflesso dell’onda | che si frange | senza fine | sullo scoglio | che io | sono”. Grande slam davvero.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 20 settembre 2009 per Poetastri.com

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