Gabriella Sica, firma solitaria e rigorosa del nobile appello di Greenpeace

“I poeti sono gli ultimi maestri nel deserto spirituale della modernità”: a dirlo è una poetessa che, caso eccezionale, più che per la sua poesia si prodiga per quella altrui.
Autrice di versi di un certo pregio (“Bruciasse almeno la mia vita | accesa da faville di passione | o da un rossore appena... || In silenzio senza brividi di fuoco | lenta mi consumo e ancora viva”), Gabriella Sica è da sempre impegnata nello studio e nella divulgazione della poesia italiana. Ha fondato una rivista letteraria – Prato Pagano – sulle cui pagine hanno esordito autori come Magrelli e Lodoli; ha curato antologie critiche ed è autrice di un prezioso manuale di prassi poetica, Scrivere in versi (“La poesia può dare alla nostra vita, alla vita di tutti gli uomini, misura e ritmo, come sgranare tra le mani un rosario o recitare i mantra indiani, come fare entrare il divino in noi o, soltanto, respirare”); da qualche anno setaccia gli archivi della Rai per allestire una “antologia visiva” dei grandi poeti italiani, di cui finora ha pubblicato i video-capitoli dedicati a Montale, Ungaretti e Pasolini. è, insomma, una benemerita. Qui però ci occupiamo di lei solo perché il suo è l’unico nome di poeta in calce all’appello con cui Greenpeace esorta gli editori a stampare su carta ecologica (la definizione originale è “carta amica delle foreste”: sembra roba da fighetti, ma per fortuna non lo è).
Oltre a star internazionali come JK Rowling e Isabel Allende, fra gli scrittori che hanno aderito all’iniziativa, presentata a Francoforte e rilanciata dal Salone del Libro, figurano fior di narratori italiani – da Ammanniti a Veronesi passando per De Luca e De Carlo. Di poeti, invece, c’è solo la Sica. Nessuna traccia di Magrelli o Valduga, di Alleva o Isgrò – né delle nuove leve, le Donà, le Genti, gli Inglese (sì, c’è Aldo Nove, ma già è difficile considerarlo scrittore tout court, figurarsi poeta).
Mancano perfino gli equivalenti versaioli di quei novellari da tinello il cui inchiostro pare prender forma solo quando vi sia da sottoscrivere anziché da scrivere, e che qui infatti gioiosamente pullulano in guisa di Cotronei, di Ravere, di Siciliani. Ma in fondo quel che conta è il gesto, la sua funzione di esempio, il suo potenziale di salubre contagio: quindi ben venga anche quello dei professionisti della firma. Purché ovviamente sia gesto autentico e completo, dunque non si esaurisca nel mero autografo in calce all’appello, ché altrimenti più che gesto è espediente per pavoneggiarsi a buon mercato su una ribalta virtuosa (per dire: a un De Carlo che coerentemente pretende e ottiene da Bompiani la tiratura ecologica del suo best-seller, fa eco una Petrignani che, pur risultando tra i firmatari, si presenta in libreria con un volume in carta bellamente non riciclata e tranquillamente sbiancata al cloro).
Tornando alla diserzione dei poeti, e anche senza voler scovare metafore a ogni costo, è difficile non vedere in questa renitenza così corale e monolitica l’assoluta incapacità di un intero mondo letterario di farsi riscontro di quello reale. E dire che i primi e più entusiasti sostenitori di un’iniziativa come questa delle “plumes vertes” dovrebbero esser proprio i poeti, sensibili come sono, per definizione e missione, alla flora e alla natura in generale. Basti pensare che già la sola edizione canadese dell’ultimo “Harry Potter”, interamente in carta riciclata, ha consentito di risparmiare, fra l’altro, quarantamila alberi e sessanta milioni di litri d’acqua: materia prima per centinaia di fondali lirici. Vero è che i nostri poeti vendono talmente poco, che se anche decidessero di ecocompatibilizzare in massa la propria produzione cartacea salverebbero sì e no un’aiuola di parco. Ma almeno riuscirebbero a sembrare meno estinti delle foreste primarie.

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All’atto pratico
il poeta si astiene.
Pigri di carta.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 12 febbraio 2005

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