Gente davvero strana, gli editori. Sempre lì a lamentarsi perché in Italia si legge poco, eppure certe volte sembrano fare di tutto perché si legga ancor meno – a cominciare dai loro stessi libri.
Metti per esempio la Bompiani, dove qualche anno fa Elisabetta Sgarbi ebbe l’intelligenza non solo di accaparrarsi i diritti per l’Italia del Neve di Maxence Fermine, ma anche, inteso il potenziale da long-seller di quella bibbia dell’haiku contemporaneo (“E si amarono l’un l’altro | sospesi su un filo | di neve”), di curarne personalmente la pubblicazione fin nel dettaglio più marginale, assicurandosi una buona traduzione, una bella confezione (ottima carta, formidabile copertina), e una promozione finalmente diversa dagli arcaici ambaradàn con cui gli editori italiani si illudono di dar lustro ai propri prodotti. Risultato: dal ’99 a oggi, Neve ha venduto oltre centomila copie, inanellato una ventina di edizioni, e garantito ai successivi libri di Fermine una base di lettori talmente solida da reggere persino all’inarrestabile declino della sua ispirazione.
Bene: sei anni e un non meglio identificato numero di imitazioni più tardi, la Sgarbi si ritrova per le mani Sonno di Antonio Rezza – in pratica, la versione adulta di Neve. Anche qui si tratta di un viaggio sapienziale, anche qui il racconto pullula di affluenti narrativi; ma, anziché l’amore stecchito e sommario degli adolescenti, il protagonista persegue una surreale e barocca maestria del sonno (“«Cos’è il sonno?» domandò il padre. | «E’ non essere in un corpo che c’è» rispose Anto”), e la sua questua si sviluppa non più nella ghiaccia monotonia del bianco bensì nel rutilare di tutte le possibili sfumature del sangue (“Le sue vesti calate lasciavano vedere una pelle bianca | come il muro intorno al sangue di chi è fucilato”). Insomma: libro perfetto per lettori che, pur educati da Fermine alla maestosa laconicità dell’haiku, preferissero sentir vibrare nelle mille tregue del verso gli echi d’una passione anziché il percussivo nulla dell’imperturbabilità nipponica.
Peccato solo che Rezza, quasi a scusarsi per gli ardenti slanci della sua sensibilità felicemente smisurata (“Aveva la pelle che sapeva di bocca. | E la bocca di bocca. | Anto la baciò tutta come fosse di bocca. || Le succhiò tutto ciò che sporgeva. | E tenne tutto in bocca, fino all’alba.”), si abbandoni spesso a inutili truculenze di piedi mozzati e occhi cavati; e che nel suo bel tessuto di poeticità lunare (“Se il sole cala | perquisiamo il cielo”) infili qualche prosastica pretenziosità (“I suoi occhi, benché aperti, lasciavano intravedere il buio della delusione, come se a forza di immaginare si fosse dissociata dalla vita reale e dalla sua volgarità”) e sloganucci che riuscirebbero a significare solo se stampati su T-shirt (“E continuarono così, per tutta la vita. | Una vita che non permetteva loro neppure di essere esteriori.”). Forse qui occorreva l’intervento dell’editore, che desse una bella strappata alla briglia troppo sciolta dell’autore.
Ecco, appunto: che fa Bompiani dopo aver avuto l’intelligenza di assicurarsi cotanto Giotto di quel Cimabue? Gli rivede forse il testo, eliminando gli ammiccamenti fuori registro (dalla ghezzata del titolo ufficiale – Son[n]o – al cognome cannesco del protagonista, Rizla) dovuti al voler tenere il piede in troppe staffe? Macché: per malinteso rispetto dell’autore, lascia tutto com’è. Ne fa per caso un volume che per finezza e grafica richiami quell’altro, e così possa attrarne i lettori? Manco per sogno: carta dozzinale e copertina quanto più possibile lontana da quella di Neve. Né, tra l’altro, riuscirà a lanciarlo con un briciolo di pubblicità, ché il darwinismo suicida dell’industra editoriale vuole ormai che il conforto della pubblicità arrida solo ai best-seller, ossia a chi abbia ampiamente dimostrato di non averne bisogno.
Per fortuna di Rezza, e per dirla con lui, la sua creatura è “così bella, che puoi anche ignorarla. | Il tuo sguardo non aggiungerebbe nulla.”
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Rezza da Tespi
si ritrova poeta.
Novello Basho
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 14 maggio 2005