Eravamo pronti a parlarvi di Adelelmo Ruggieri, poeta in erba, e dell’incanto greggio del suo La città lontana (“Velocemente percorro | questa bella discesa | con il mio sentire | che sale ”). Poi però siamo incorsi in Dottrina dell’estremo principiante, e la conseguente folgorazione fa sì che vi si parli piuttosto di Mario Luzi, poeta in secca. Oh destino…
Nella poesia contemporanea è difficile trovare vezzo più irritante dell’oh qualcosa. Oh vita… Oh mondo…Oh felicità… Sì, ci sarebbe l’aggettivo anteposto al sostantivo: ma non raggiunge le stesse vette di stucchevolezza. E ci sarebbe la smania degli anemoni, ma l’oh qualcosa è persino più anacronistico. Oh umano e divino… Oh spes… Oh voi… Di sicuro è il più schietto emblema del ridicolo poetico, e lo è tanto in versione esclamativa quanto in versione light, tanto con l’acca quanto senz’acca (in quest’ultimo caso è pure odioso, ché per un breve lasso di verso illude si tratti di innocua congiunzione e non dell’aborrita invocazione piagnona). Oh privilegio!… O anima… Oh libertà…
Un tempo l’oh qualcosa era cifra di nobile lirismo malinconico – quello stesso lirismo che, reso indigesto da docenti somari, ha marchiato per sempre di noia la poesia appresa a scuola. Usato oggi è solo la spia di un fallimento espressivo: artificio dozzinale con cui gli autori spompati sperano invano di rimediare all’afonia emotiva delle loro liriche. Non per niente è molto in voga tra i poetastri, che da un lato lo spargono a piene mani sui propri versi sempre tesi a pitoccar compassione, e dall’altro, come signorine sentimentali ghiotte di vicende lacrimose, adorano farsene irrorare dai pochi poeti di rango che ancora l’abbiano in repertorio. Uno dei quali, forse l’ultimo dei quali, si è sorprendentemente rivelato essere appunto il Luzi di Dottrina, instant poetico apparso in libreria nel battito di ciglia fra il suo novantesimo compleanno e la nomina a senatore a vita.
Nonostante la suprema bellezza del titolo, l’ultima raccolta di Luzi è di fatto l’apoteosi dell’oh qualcosa, il suo trionfo sia come baracconata retorica (gli esempi di cui sopra sono appena un assaggio delle dozzine che ne infestano le pagine) sia come cappa di impoetica querimoniosità che affligge ogni singolo verso. Tra uno spigliato “Oh non sia quello il punto…” e un per niente affettato “Oh terrestria, oh caelestia…”, l’unica cosa che Luzi riesca a cavare dalla propria vena poetica – peraltro tenuta a maggese per cinque anni, durante i quali il Maestro ha preferito esprimersi con prefazioni a libri di poetastri – è una farragine di versi malamente sbozzati, da cui occhieggiano cascami di misticaglia lagnosa (“Dove sei? Non ti trovo | anima mia, | chi ti ha preso…”) e fumisterie coelhesche (“Ecco, si disvela, è | l’inessere delle cose in sé, | in sé ciascuna, | nell’imo, | intimamente | fino al suo perché”), perlopiù formulati in maniera che risulterebbe ostica persinoall’indecifrabile Severino (“…Era e eveniva | il suo essere presente | all’essere e all’evento | ininterrotto del mare | e di se stesso presente. | Era e eveniva | parimenti nel tempo | e nell’eternamente. Oh attimo…”).
Il tutto, come se non bastasse, accidentato per senso e suono da una gragnuola di latinate, di neologismi a pera (vedi l’incongrua ispaniata di “Di sé voleva dirmi, | a nome di altri però ablava…”) e di paroloni a fava (come “i molti attanti | dell’essere: uomini, | angeli, il sole…” che dopo sessanta pagine ricicciano insieme al resto d’una poesia rimaneggiata senza profitto: “i molti attanti | dell’essere, animali | uomini, piante…”): trovarobato lessicale che sembra aver l’unico scopo di far polverone intorno alla sconfortante apnea semantica in cui si dibatte il testo, asfissiato da un’ininterrotta morsa di antilogie non si sa se più leziose o sconclusionate (“…nel tempo che tutto avoca a sé | e tutto svuota | di sé, se stesso pure | presente e assente | nella sua e non sua eternità…”).
E il miracolo che si compie nelle ultime sezioni del volume, dove le anticaglie, il latinorum e gli oh qualcosa si diradano fin quasi a scomparire, e di colpo si drizza il passo sghembo dei versi e si tende la loro sostanza, e Dottrina comincia finalmente a sembrare opera di poeta, è miracolo che può testimoniare solo il lettore di professione. Ché l’altro, quello vero, ha già chiuso il libro e l’ha riposto sullo scaffale. En attendant Nobel.
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Luzi si lagna
ma più di lui chi legge.
Frignatore a vita.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 11 dicembre 2004