Così i baroni del verso si fanno perfatori, ribadendo la propria superiorità sui prefati

Può capitare d’aver voglia di leggere qualche poeta sconosciuto. Può capitare perfino, la vena della perversione essendo inesauribile, di volerlo scovare italiano e contemporaneo. Allora si entra in una libreria, si individula la sezione poesia (che ultimamente ha guadagnato posizioni e visibilità, smarcandosi da manuali di giardinaggio, guide turistiche e raccolte di ricette) e si sfogliano libri di autori fin lì ignorati – come La settima onda, di tal Giuliana Rigamonti. Se i versi piluccati là per là convincono (“La nebbia ha fame d’orti | e di vigneti”, “La primavera è durata un nido”), o addirittura emozionano (“Chiuso l’imbarco, il traghetto bianco | scivola come un letto d’ospedale”), ci si dirige risolutamente verso la cassa, infischiandosene sia dell’allarmante nome della collana (“ars amandi”) sia dell’ancor più allarmante affinità fra il fiore dipinto in copertina e l’anemone che furoreggia nei versi dei poeti scadenti.
Sbagliato. O meglio: giusto ma insufficiente. Manca un passaggio fondamentale. Prima di acquistare il libro, infatti, occorre cercare la prefazione. C’è, dev’esserci per forza: non esiste poeta minore italiano che rifugga una punzonatura di Luzi, o di Majorino, o di Gramigna, o d’altro solerte prefatore di versi altrui per penuria di propri. E, individuata la prefazione, occorre leggerla. Subito, tutta. Altrimenti, leggendola a casa, magari per trovare un’autorevole conferma del piacere ricavato già dalle prime quattro o cinque poesie, si rischia di scoprire che quei nove euro conveniva risparmiarseli.
Gli ingenui si illudono che le prefazioni di poesia abbiano lo stesso scopo delle altre: invogliare alla lettura del testo che accompagnano, o quantomeno illustrarne i pregi. Non è così. Elargite da baroni del verso a timidi vassalli disposti a subirne il dileggio pur di ostentarne le insegne, esse sembrano avere il solo intento di mettere in luce difetti, di sottolineare l’abisso che i prefatori presumono fra sé e i prefati – senza neppure sforzarsi di non darlo a vedere, e con accanimento inesorabile. Quasi che per costoro scrivere quelle quattro righe fosse un’odiosa costrizione anziché un sistema per arrotondare le entrate del proprio esercizio di potere.
Sono tutt’un prender le distanze, le prefazioni dei poeti: tutta una reticenza, un metter le mani avanti a ogni riga, una correctio col negativo bene in vista, un’excusatio talmente non petita da sfociare in accusatio velenosamente manifesta – e inevitabilmente contagiosa. Perché c’è poco da fare: se il patrocinatore Gramigna ritiene necessario precisare che i versi della patrocinata Rigamonti non sono “foglietti di diario svolati via da un calendario amoroso”, è inevitabile che, superato l’attimo di smarrimento in cui ci si chiede da che sorta di coma logico derivi un articolo di cancelleria così composito e in quali lewiscarrolliane cartolerie esso sia reperibile, si ceda alla suggestione che versi come “le molle | del letto non lamentano più; ti sanno | in qualche altrove e campano | di ruggine, aspettando” siano in effetti caratterizzati dalla sconnessa leziosità tipica dei fogli di diario, soprattutto se svolati via da un calendario.
Lo stesso accade leggendo che l’autrice non si serve della realtà “con mera funzione descrittiva”. E che non le dà timbro e struttura per “semplice esercizio di abilità” – virtuosismo di cui Gramigna, pur continuando a non accusarla, deve ritenerla colpevole perfino in maniera maldestra, dato che le rinfaccia astuzie formali “cucite col filo bianco, di cui la scrittrice stessa sembra sorridere”.
Altroché sorridere: con una prefazione così, la Rigamonti gioirà anche alla prospettiva della più spietata fra le recensioni.
Ma quando il buon prefatore, con un ultimo tocco di squisita generosità, le concede il lusinghiero viatico che “in fondo qualunque poesia rappresenta un successo”, si capisce ch’era tutto un equivoco. In realtà non ce l’ha con i suoi versi: sta implorando pietà per i propri.

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Irto di travi,
l’occhio del prefatore
vede pagliuzze.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 21 febbraio 2004

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