Il Marmo cariato di Silvia Bre e l'Amore dispari di un'esordiente

Torniamo ancora una volta ai poeti stitici e agli editori ingordi. Prendiamo ad esempio Marmo, di Silvia Bre, appena pubblicato da Einaudi; definirlo “raccolta”, come fa l’editore in quarta di copertina, è quantomeno azzardato. Sarebbe più giusto dire “raccogliticcia”, essendo una messe di versi mediocri raggranellati per dar volume a un’unica composizione veramente poetica, che, troppo esile per farsi libro, rischiava l’ospizio di qualche rivistucola di poesia. Pur di non finire tra i Nove e i Manacorda abituali avventori d’almanacchi poetastri, la stitica autrice dev’essersi spremuta la vena poetica fino a mungerne qualche strofetta ancillare, qualche versicolo per futili motivi, un po’ di imbottitura lirica che aiutasse l’editore a racimolare le fatidiche novanta pagine, soglia minima per poter dare corpo – e cassa – a un libro di poesie non della Szymborska.
Delle novanta pagine di Marmo, se ne salva dunque una dozzina, una splendida dozzina dedicata a San Sebastiano e forgiata in “poema tragico” con grande potenza sonora ed emotiva: “E sono Sebastiano | il nudo ascolto | la perfetta capienza delle frecce – | nessuna andrà perduta. | Eccomi, sono | questo sacro convegno di miserie”; e ancora: “Frecce che devastate fatemi largo | non mancatemi in me da parte a parte – | vengo da voi, che mi portate il centro”; o ancora: “Come mi fiacca | la voglia di morire, a volte, | come mi monta, | quanto mi scavalca… | E mai che mi riceva come un nido.”
Belle come sono – e malgrado l'eccessivo e stucchevole ricorso al pronome intensivo (“E io mi tremo come un monumento”, “vi muoio comunque”, “finché mi tocca sfondo la mia scena”…) – ci piacerebbe darvi altre prove di questa facile ma efficacissima metafora d’uomo concepita dalla Bre. Ma sommeremmo ingiustizia a ingiustizia. La prima è stata farvi assaggiare, a mo’ di Cana, il vino decente prima di quello scadente – nonostante l’editore abbia relegato in fondo all’orcio i sorsi migliori, forse con la speranza di lasciarci la bocca buona dopo avercela impastata di versi insulsi. La seconda consisterebbe appunto nell’illudervi che i versi di Marmo siano tutti preziosi e vibranti come quelli del “Sempre perdendosi” di Sebastiano.
Non è così: per approdare a quella perfetta compiutezza, il lettore deve superare una cordigliera di pseudo-epigrammi a rime cariate (“Scocca l’istante scocca | e il tuo destino è piccolo | ti sta nelle mani | ti tocca.”), voragini logiche(“come quando alle sei di mattina ci svegliamo | davanti alla deposizione tacita del giorno”), coelhonate da brivido (“Il dono a volte è solo un vetro opaco | che va riconosciuto in mezzo al niente”), e perfino un paio di quei finalini a effetto da cui di solito partono i poetastri per costruire le loro goffe liriche à rebours (“…in ginocchio | dentro una stella che non sa morire”).
Tutt’altro percorso, più agevole, toccante e intimamente lirico, è quello dei versi dell’esordiente Lucia Piani. Sin dal titolo del volume, Poesie dell’amore dispari (Edizioni Clandestine), l’autrice mostra di possedere quello che per Tagore era il talento del vero poeta: “far sentire la bellezza di una sua idea agli altri uomini”. C’è sì qualche ingenuità (l’ostinata rinuncia al punto, che spesso impedisce il necessario stacco di senso, o i titoli che cercano troppo di fare i simpatici o di significare più del dovuto), ma viene  ripagata dalla qualità dei pensieri e dalla loro quasi sempre impeccabile messa in posa.
Versi come: “Sto sprofondando nell’assenza di te | … | Questo vuoto denso e melmoso | mi sta arrivando | alla bocca | livida dei baci non ricevuti | al naso | fosse gemelle orfane della tua pelle di sapone | agli occhi, poveri idioti | come se non vedere fosse uguale a uccidere | come se annullarsi fosse uguale a dimenticare”… o come: “Averlo saputo prima | avrei fatto esattamente tutto uguale | perché la felicità è una cagna affamata | che alle promesse di carne | preferisce sempre ossa insanguinate e presenti”… ecco: questi sì che sono davvero una raccolta, ossia il frutto di un raccolto poetico.

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Rimpannuccia Bre
una silloge smunta:
stipsi d’autore.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 24 maggio 2007 per Poetastri.com

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