È stitico, Guido Oldani. E, come tutti gli stitici, è in sospetto di avarizia. Scrive bei versi, a tratti persino incantevoli, ma li rintana in un opuscolo di dieci titoli (La betoniera, ed. Lietocolle) che permette all’editore di vendere a dieci euro. Quasi un euro a pagina: piuttosto caro, in questi tempi di pecunia più rara persino della poesia.
Ecco settanta centesimi di bel poetare oldaniano: “I due cappotti siedono vicini | portati senza portamento alcuno | come due bucce vuote di banane. | Si parlano le loro cicatrici | e gli occhi sono anelli di catene…”. Peccato che il loro potere d’acquisto sia dimezzato dal fatto di costare quanto certe bazzecole amene di suono ma scarse d’ingegno: “…si avvinghiano bagnati in un groviglio | i rispettivi panni in capriola, | sono rimasti questi i soli amanti | quegli altri se si afferrano è alla gola”.
Un altro che si risparmia, che spende poco del suo innegabile patrimonio e lampante talento, è Mario Santagostini, che nei Versi del malanimo (raro baluginio nella smorta collana dello Specchio) dà il meglio di sé in certe parti inspiegabilmente raggrumate in prosa. Eppure sono poesia bell’e buona: ne hanno il passo e la tempra, tanto che il lettore, imbattendosi in questi versi imprigionati, sparge d’istinto gli a capo liberatori: “Avverto già l’invidia dei morti | per i vivi? | Sì, l’avverto (…) | E somiglio a mio padre | fino al pensiero che Dio | non mi ha mai creato | anche se poteva.”
Nel resto, nelle preponderanti pagine dove il verso non è in incognito, la poesia affiora, ma l’autore è così micragnoso da tenersela per i finali (“Ricordo un giugno senza temporali, | e un lampo caduto | sulla ferrovia. Dove | qualcuno tentava di gridare, | e anche lì mentiva.”); o la spreme riproponendo fino alla stucchevolezza qualche formula indovinata (pag. 11: “E paradiso è un verbo, | alla prima persona.”; pag. 40: “E la parola sogno | era femminile, | come qualche verbo di moto.”; pag. 74: “Che una forma simile all’addio… li riunirà tutti in una quarta, di persona plurale.”); o crede di sfruttarla al massimo sferrando virgole enfatiche come colpi di cimbali (“Sera: chi ha fatto qualcosa, | adesso non sa se è stato bene, o male.”).
Anche Elio Pecora alterna prosa e versi; nel suo caso, però, la poesia non c’è né di qua né di là. E le centodieci pagine di Simmetrie (anche qui Specchio, stavolta perfettamente in linea col resto della collana) lo confermano araldo del poetare inteso come coniugazione di suoni a salve e senso a sorte.
Piglio coturnato e passo zoppo, Pecora avanza nell’ostile campo poetico seminando ossimori scaduti (“Il suo amore è pieno di odio, | Il suo odio è pieno d’amore.”) e incisi da liceale confuso (“Il pianto che sale, | incontenibile, anche chiamato, | è per i volti e i gesti, | così tanti, | affiorati dal passato, | per sempre spariti, | o per noi stessi che per sempre, | come quelli, spariremo?”). Quando si ferma a rifiatare, guarda la pagina vuota, la trova immensa, e decide di liquidarla con qualche sapienziata da accapponare Coelho (“Il vento deserto cancella la pista. | La barca non lascia traccia sull’acqua.” “Corre l’istante su un filo di lama, | non c’è varco nel cielo irraggiungibile.”). Poi, stufo di andare a capo, si butta sull’“orizzontalità della prosa”, come recita un’aletta imbarazzante per pomposa inconcludenza.
Orizzontalità che di fatto è mera piattezza – di lingua, di temi, di caratteri. Una galleria di tipi con velleità d’affresco balzacchiano, ma che al massimo sanno di bozzetti stesi col lapis su una salvietta di trattoria.
Siamo all’ecologista che “difende uccelli strani” ma alla fine, con straordinario colpo di scena, “torna a Capalbio, per la sagra del cinghiale, carne tra le più fragranti”. Siamo a “Lui s’inventa l’amante, lei minaccia di partire” ma alla fine, con audace capovolgimento drammaturgico, “lui sorride, le carezza i capelli. Lei va in bagno a lavarsi gli occhi, ad azzurrarsi le palpebre, come per una festa”. Siamo, insomma, al coraggio di chiamare “lacerti di un mondo spiato” i più insulsi fondi di cassetto.
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Come nei versi –
a onor di simmetria –
fiacco anche in prosa.
Articolo di Sergio Claudio Perroni del 9 gennaio 2008 per Poetastri.com