“Aiutami a tornare sulla pianura, | a credere che non sia morta l’avventura.” Pur somigliandogli tantissimo, l’autore di questo obbrobrio non è l’indimenticabile Ugo Straniero. È invece Roberto Mussapi, con la sua nuova raccolta La stoffa dell’ombra e delle cose, pubblicata da Mondadori nell’ineffabile collana dello Specchio.
Caso interessante, questo di Mussapi e delle desinenze. Perché il poverino, in effetti, il pudore di non scrivere in rima ce l’avrebbe anche; ma in certi casi è più forte di lui: non riesce a trattenersi. Ha una specie di disturbo alle vie rimarie: davanti a una parola che finisce in -ura, la rima gli scappa come un bisognino, deve farla subito, dove capita, a costo di imbrattare la pagina. Ecco allora quel distico da brivido, candidato ideale per il PUS al peggior verso dell’anno. O quest’altro, che potrebbe insidiargli l’alloro: “…richiamo lontano | che ti fece partire per l’agognata altura | mentre sotto i tuoi passi l’ombra perdura.” O ancora (e qui il sintomo vocalico è diverso ma il decorso è tragicamente identico): “Io che ti sogno nella notte nera | io, ero io la tua preghiera.”
Per il resto, l’ordito di questa Stoffa vorrebbe essere un alternarsi di voci che si raccontano – voci di fiori, di Marco Polo, di Ulisse, di fidanzate di Marco Polo, di guerrieri “inumati”, di tuffatori di Paestum – voci dunque disparate e molteplici, che tuttavia Mussapi rende con un unico tono: piatto, melenso e mortuario. Ma non è il funebre confiteor dei morti di Spoon River, che tanto più sferza quanto più è breve, lapidario. No, qui a volte chi parla è ancora vivo, ma è così prolisso, e mette una tale noia, che lo si vorrebbe morto e sepolto. Anzi, inumato.
Anche perché queste piante, questi esploratori, questi guerrrieri, questi maledetti seccatori, sono così assordati dal proprio tromboneggiare, da non accorgersi dell’abisso che separa la pompa di cui si credono latori dal moccio poetico cui li costringe l’imperizia dell’autore. Li vedi dunque oscillare, ignari e ridicoli, tra sentori di muffa aulicheggiante (“Sono passate molte vite da allora | ma nella morte mai trapassò la vita”) e zaffate di lacca da parrucchiera in analisi (“…un evento | attimico evento per sempre tatuante”). Li senti inanellare con sfrenata disinvoltura concetti scapicollati (“…respiri compressi, poi voci | che inalano in me come se io parlassi”), nessi sintattici che dire zoppi è farne atleti (“Di questo viaggio parlerò più avanti, | quando esperito sarà conoscenza, | posso parlarti di quanto ho lasciato…”), grovigli logici indipanabili (“Poi ci giravamo intimiditi correndo verso casa, | e inconsciamente, nei loro occhi sereni | le iniziavamo già allora ad amare | la nostra rozza ed eroica imperfezione.”). Ti rintronano or con lagni al rosolio, capaci di trasformare in modista gozzaniana perfino il rude Odisseo (“oh, come avrei voluto pascermi e obliare | l’oceano e il ritorno impossibile, | svaporare in rugiada…”), or con stecche sonanti, il cui amplissimo registro va dallo slogamandibole (“il luogo dove da ovunque convergono”) all’allappalabbra (“lo so perché lo appercepii vivendo”). Pur credendosi nell’empireo del lessico lirico (“…dopo la sveglia nel freddo albare…”) naufragano tra finali da canzonetta (“Conosco la pazzia e sono affogata | e adesso so che era soltanto amore”) e comici innesti di sgraziata prosaicità (“…così distesa e in pace | con il quaranta per cento del tuo scheletro posato | come Nefertari sul sarcofago…”). Chiamano “Comandante” il capitano Achab, dicono “intriso” di molluschi un palo di laguna, “in ipnosi” un piede sull’acceleratore, avvertibile una pressione “ovoidale”…
Infine, afoni, cedono la parola e la ribalta all’autore. Il quale, inserendosi impavidamente nella parata di eroi come tra altrettanti pari, sprofonda nel ridicolo con la celebrazione autobiografica. Tra le plaghe mitiche del Laerzìade e quelle esotiche di Marco Polo, spuntano, senza neppure il viatico dell’ironia, le plaghe civiche del Mussapi: “…Via delle Palme, in Liguria, sul mare, | e Via Marsili 11, a Bologna | dove ho salito infinite scale, | e ora qui, a Milano, in via Mameli…” Più che Stoffa, si direbbero Pagine Bianche. Che Mussapi ha malamente sporcato d’inchiostro.
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Dà voce ai morti
Mussapi da Cuneo.
Doppia iattura.
Articolo di Sergio Claudio Perroni del 27 ottobre 2007 per Poetastri.com