Michele Mari è un romanziere. Uno dei pochi, uno dei migliori che esistano in Italia. Ha scritto, per citare l’opera che più ci ha incantato, La stiva e l’abisso, romanzo a metà tra Conrad e Poe e all’altezza di entrambi. Oggi, stufo o forse innamorato, o forse stufo d’essere innamorato, si butta in poesia e pubblica con Einaudi una raccolta di versi: Cento poesie d’amore a Ladyhawke.
Deludente. E non perché Mari, da ottimo narratore, non fosse equipaggiato per il gran passo lirico – tutt’altro: le frasi e i fatti dei suoi romanzi migliori battono il suono di una poesia purissima, che pare ristretta in prosa solo per qualche accidente tipografico, impaziente di essere riconfigurata col metro che le compete. Né perché anche lui, come il più bieco dei poetastri, ha deciso di approfittare della parola “amore” nel titolo. No, Cento poesie d’amore a Ladyhawke delude perché, delle cento che promette, di poesie sul serio ne mantiene sì e no dieci. E solo tre o quattro che siano davvero d’amore – o forse cinque o sei, dipende dalle condizioni sentimentali in cui versa il lettore.
Già avrebbe dovuto insospettirci il nomignolo della dedicataria, se solo l’avessimo inteso per quello che è, ovvero l’omaggio a un’eroina del fantasy, anziché, come c’eravamo illusi nella nostra abissale ignoranza, a una rapinosa amante ottocentesca. Ma poco importa, ché neppure una dedica alla sorella di Mago Merlino o alla nuora di Lionheart avrebbe potuto farci presagire un Mari così disperatamente minore, così sventatamente lieto di dividersi fra vapidi epigrammucci da liceale (“Ci si illude | che scriversi sia pur sempre | un modo di fare l’amore || In realtà sappiamo | che il più grande scrittore di ogni tempo | si chiamava Onan”) e imbarazzanti attacchi di metaforismo (“Perché nell’ora decisiva | non mi avete chiamato al vostro tavolo | perché avete giocato a poker in due | dandomi le carte del morto?”); un Mari dedito a quel disarmante vizio di sterilità espressiva che è il ricorso compulsivo al paragone (“come un fantoccio | della classe morta di Kantor…”, “come un triflisso [?] | ti ho ingolosita…” “non altrimenti l’assassino | fruga nel portafoglio della vittima…” “come un vecchio detenuto messicano | anch’io ho sognato…”), prono al disarmante citazionismo alto/basso degli antichi post-moderni (Pascal e Nico Fidenco, Rilke e lo Shane della Valle Solitaria, Ivan Ill’ich e Kokoschka, Loyola, Ferlinghetti, l’Overlook Hotel di Kubrick, Petrolini, Cavalcanti, ecc.) e succube di finalini persino più stenti dell’impianto che li vorrebbe esplodere (“Il mio amore è un trapano tremendo | con punte | al tungsteno | al molibdeno | al vanadio | che fanno paura soltanto a vedersi || Il guaio è che da ragazzo | mi han fregato il mandrino | e ancora | lo sto cercando”).
Poi, s’è detto, qualche soprassalto di classe c’è, qualche tocco magistrale si trova: “Ho pensato i tuoi occhi | così tante volte | che alla fine il pensiero | mi è rimbalzato addosso | e non ho più avuto un gesto | che non fosse riflesso | dal tuo sguardo”; e ancora: “Fedeli al duro accordo | non ci cerchiamo più || Così i bambini giocano | a non ridere per primi | guardandosi negli occhi | e alcuni sono così bravi | che diventano tristi | per la vita intera” . Ma è poca cosa rispetto alle pagine di stonata petulanza con cui, imperterrito, quest’amante disamato rintrona l’amata indifferente.
Amata che, a onor del vero, è difficile biasimare, se il registro galante del suo corteggiatore è stato anche nei fatti, com’è nei versi, quest’incrocio tra la forzosa scanzonatura del cornuto contento (“Come potevo sapere | che l’avversario che il fato mi assegnava | era una rarissima specie protetta | di orco buono?”) e la rancida magnanimità dello sfigato respinto (“Mi son fatto un punto d’onore | di non restare deluso da te | e a dispetto del tuo impegno | ci sono sempre riuscito”).
Se questo è dunque l’amore, se questa è la poesia di cui è capace Mari, speriamo di vederlo tornare quanto prima in prosa. E, soprattutto, in sé.
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Mari in amore
orbo di narrativa
naufraga in versi
Articolo di Sergio Claudio Perroni del 9 settembre 2007 per Poetastri.com