L’hai sentito paragonare al Fuoco centrale della Gualtieri (“Io parlo all’amore. Lo scortico dall’incrosto | nel sogno e ne faccio musica storta | ne faccio delicato vento che solleva o dondola | e impollina il cuore…”) e persino alla Penelope di Rosaria Lo Russo (“…piango me desolata reggia | piango me pretendente di me consorte | usurpatrice me della mia stessa sorte…”). Viste le referenze, lo compri senza indugi.
Il risvolto parla di “poemetto”; ma il lettore di poesia, si sa, è caotico per curiosità: sicché apri a caso e inforchi la prima lirica che ti capita. Il primo verso è“Sbrandellarti io voglio”. Poco male: nemmeno alla Gualtieri riescono sempre incipit all’altezza di “Io sento il piangere delle cose”. Scivoli al secondo verso – “sfregiarmi di uno sguardo”, e va già meglio. Anzi: l’immagine dello sguardo che sfregia è così efficace da tracimare sul verso successivo, che per un attimo sembra anch’esso bello. Ma appena il riverbero svanisce, lo vedi com’è davvero – “o te smagato come una lingua”. E resti giustamente perplesso. Questione di poco: il tempo di sospettarvi inevasa la domanda di un qualsivoglia senso, di riaverti dalla brutta trappola gutturale “smagato/lingua”, e già lo sguardo è corso ad agganciare il verso successivo – “vicario d’avvenire”. Qui di senso ce n’è a bizzeffe, e il piacere di rovistare nella sua apparente inesauribilità ti spinge istintivamente a prender tempo. Lo rileggi, godi, ti metti in favore di un senso, poi di un altro, orienti come specchietti i due vocaboli, beandoti nel vederli così cangianti di sostanza; poi daccapo all’incipit, per ridiscendere la quartina con lo slancio del coinvolgimento innescato: “Sbrandellarti voglio | sfregiarmi di uno sguardo | a te smagato come una lingua | vicario d’avvenire…”.
Il lettore di poesia, anche questo è noto, è volubile per voracità: basta che fiuti anche solo un’ipotesi di immedesimazione, e i versi non riesce più a seguirli in fila indiana. Incassata la promessa dei primi, gli altri vorrebbe scartarli e aprirli tutti in una volta, stravederli, tuffarsi simultaneamente in ciascuno di essi e assorbirne con un’unica occhiata tutto il senso. Sicché, sullo scorcio della quartina, il tuo famelico strabismo di lettore di poesia ti spinge al tempo stesso a registrare il titolo della lirica e a proseguirne la lettura col quinto verso.
“Il tuo mutire mi sforbicia i tramonti”, fa il titolo. E “come attecchirti in madre” fa il verso. Cioè, l’uno fa ridere e l’altro fa pena. Passi per il mutire, che almeno è tanto brutto da risultare per forza espressivo; ma: mi sforbicia i tramonti…? E l’attecchirti in madre, che pare il Predictor spiegato all’ortolana, che nesso ha con l’accusa di succedaneità temporale rivolta all’interlocutore universale? No: non lo scopri neanche al verso che segue, un altrettanto vaneggiante “come da te spremere crinali di morti”.
Ed è tutta così, questa garrula Lingua di Dio di Maria Angela Bedini: ciacolio di associazioni verbali non tanto libere quanto anarchiche, i cui lampi di fascino espressivo hanno gittata così breve e traccia così fortuita da denunciarsi frutto del mero gioco combinatorio. Immagini sontuose come le “lune manoscritte” o “il freddo ha bocche di segugio” sfumano in un marasma di metafore scalcinate (“lo zigomo della cucina”) o stirate fino a sfibrarle (“Per le munizioni degli occhi | schieravo le ciglia | revolver di scritti | per le ciminiere di dire…”); la suggestione di un “La notte che piombò | come un sinistro sopra i miei occhi” non fa in tempo ad addensarsi e già si dissipa per l’attigua astruseria di “recitava salmi per i fianchi | inchiodati per l’acqua…”.
Perfino il bel passo sonoro, che pure è la sola pertinenza poetica di cui l’autrice si dimostri al corrente, è di falcata breve, sciancato com’è da improvvise voragini sdrucciole spalancate in una trama di uscite piane. Né soccorre la sciagurata idea di rinunciare alla punteggiatura, giacché per farsi funamboli bisogna aver più magistero di terraferma che vocazione d’aria.
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Benché di Dio
la lingua bediniana
tartaglia assai.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 27 novembre 2004