Solo un istante, per una faccenda urgente che altrimenti rischia di passare inosservata. Poi affronteremo col dovuto rispetto l’accusa di parlar bene dei poeti solo se stranieri (come se stranieri non lo fossero comunque tutti, i poeti) o morti (idem).
Dunque, la faccenda si riduce a questi versi: “Se non puoi farla come vuoi, la vita, | sforzati almeno più che puoi | di non prostituirla | nei contatti eccessivi con la gente, | con i gesti eccessivi e le parole… | finché diventi estranea ed importuna.” Li trovi in una manchette nella prima di cultura del Corriere, per reclamizzare la rivista di poesia dell’editore Crocetti (e scucire il redazionale che, con rara finezza e vibrante spontaneità, le viene dedicato due pagine dopo).
Hanno un che di familiare, però stenti a identificarli. Poi, dopo un secondo sguardo, ti sembra di riconoscerli. Ma non è una poesia di Kavafis? Altroché se lo è. Anzi, forse è direttamente “la” poesia di Kavafis. Un tempo la sapevi persino a memoria. Però ti sembrava di ricordarla più elegante, più in forma, non così pesta e malandata. Che non abbia retto al passare degli anni? Che anche le poesie, come le persone, invecchino male se non le tieni costantemente d’occhio?
No, macché: non è questione di età. È questione dello sgangherato “puoi-vuoi-più-puoi” che allappa i primi due versi, e che subito dopo trascende nel cancan di “CONtatti, CON la gente, CON i gesti”. E quel “prostituirla”, poi: completamente fuori registro per senso e suono. Ecco: “sciuparla”, ti soccorre la memoria con la bella traduzione del poeta Nelo Risi per Einaudi: “non sciuparla | nel troppo commercio con la gente, | con troppe parole e in un viavai frenetico.”
Quanto a bellezza, comunque, non scherzava neanche la versione di Filippo Maria Pontani per Mondadori: “non la svilire troppo | nell’assiduo contatto della gente, | nell’assiduo gestire e nelle ciance”. Non proprio un esempio di fedeltà, però bella.
Quest’altra, invece, è una traduzione tanto infedele quant’è racchia. Fra l’altro, l’originale non aveva traccia di puntini dopo “con i gesti eccessivi e le parole”: Kavafis, che non era Bevilacqua, ai puntini preferiva i concetti, e quelli che qui l’inserzionista ha deciso di censurare, rimpiazzandoli appunto coi puntini apocrifi e senza nemmeno la decenza di una parentesi a dichiarare l’arbitrio, sono concetti non proprio da buttare: “Non sciuparla portandola in giro | in balia del quotidiano | gioco balordo degli incontri | e degli inviti”.
Niente male, vero? Specialmente per chi, pubblicando una rivista di poesia, un briciolo di competenza in materia dovrebbe averlo, o quantomeno di rispetto per gli autori di cui si serve, o se non altro di scaltrezza nei confronti dei potenziali lettori. Perché nemmeno il più becero editore porno si sognerebbe mai di pubblicizzare i propri giornaletti con locandine piene di gnocche nude trasformate in altrettante Litizzetto a colpi di Photoshop.
Ma il problema del signor Crocetti Editore era che quella splendida quartina avrebbe sottratto spazio al resto del messaggio pubblicitario. Sicché un bell’editing e via: tagliata e sostituita coi puntini a far da ponte per l’ultimo verso, così da poter schiaffare in corpo mille il titolo della rivista e aggiungere la cruciale informazione: “tutti i mesi in edicola”. Più, chissà perché, il numero di telefono. Forse così uno può chiamare e fare una dedica, come nelle radio private. E magari, già che si trova, può anche chiedere di chi siano quei versi.
Già, perché nella manchette – sempre all’insegna di una correttezza sopraffina – non si fa cenno all’autore dei versi più o meno lecitamente utilizzati a mo’ di slogan. O forse no, non è stata una scorrettezza: dato lo sconcio della traduzione e dell’amputazione, renderli anonimi è stato piuttosto un atto di pietà verso un grande poeta scomparso.
Ecco, appunto: dei poeti morti parleremo la prossima volta, perché adesso c’è appena lo spazio per un numero di telefono: 02.3538277, Crocetti Editore.
Dite che è da parte di Kavafis.
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Strage di versi
a scopo réclame.
Pubblicità-decesso.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 6 marzo 2004