Per conoscere i versi (veri) di Sylvia Plath evitate la traduzione traditrice di Giovanni Giudici

Qualcuno potrebbe rimanere ammaliato dall’interpretazione di Gwyneth Paltrow nel film “Sylvia”, dove la sua abituale mono-espressione – sopracciglia inarcate e sguardo cisposo – càpita talmente a proposito da sembrare l’unica possibile per dare smalto cinematografico alle ambasce di Sylvia Plath. Talmente ammaliato, potrebbe rimanere quel qualcuno, da voler subito leggere qualcosa della suddetta poetessa suicida (sembra pleonastico ma non lo è: sono esistite anche poetesse morte di morte naturale; si contano sulle strofe di un sonetto, ma sono comunque esistite).
Bene: quel qualcuno sappia che rischia di incorrere nell’edizione Mondadori “curata” dal poeta Giovanni Giudici. E che perciò, se ignaro d’inglese quanto rivela d’esserlo il preteso curatore, rischia di trovarsi in balia d’una versione che dell’originale conserva solo il testo a fronte. Una versione in cui l’agghiacciante icona olocaustica dell’“otturazione d’oro” – peraltro evocata da una Plath in piena mimesi da forno crematorio – scade in una “protesi dentale” degna di Orasiv; in cui il famigerato “stivale”, i cui calci teme e al tempo stesso agogna l’autrice del celebre lamento “ogni donna ama un fascista”, diventa chissà perché una sdrammatizzata e smilitarizzata “scarpa”. Una versione in cui la sciatteria da calco letterale tramuta in inesistenti e tuttavia atrocemente enteriche “stringenze” quelle che per l’autrice sono cerebralissime “impellenze”, mentre la sciatteria tout court snatura in civettuola voglia di “dire impertinenze” quella che in origine è l’odiosa smania tutta virile di dire “cose inconfutabili”.
Sappia pertanto quel qualcuno, che, in virtù del cumulo di tradimenti del testo originale perpetrati senza nemmeno l’alibi della fedeltà rimica o metrica, la già di per sé ostica Plath rischierà di sembrargli incomprensibile e per giunta idiota. Perché solo un’idiota esprimerebbe con un carnevalesco “vestirmi da tigre” quella che in realtà è la beffarda aspirazione a una patetica dissolutezza da “mutandine tigrate”; e solo un’idiota massacrerebbe il geniale paragone fra il consorte e la luna scrivendo che sono entrambi “due gran scroccatori” senza aggiungere “di luce”, dettaglio che lo scellerato Giudici sopprime, annientando in un sol colpo la bellezza assoluta dell’immagine e la spietata ripercussione autobiografica, ovvero l’accusa di vivere di luce riflessa che la Plath muove al marito e minor poeta Ted Hughes.
Allora, per non vanificare il benemerito impulso ad assaggiare poesia femminile (che è poesia per antonomasia, quasi un genere a sé, e che perciò andrebbe tradotta solo da donne) e al tempo stesso evitare di leggere versi candeggiati da traduttori inetti, a quel qualcuno converrebbe cimentarsi con autrici italiane.
Con Jolanda Insana, per esempio: la cui lingua “disorientata va a tentoni e risospinta da ogni canto | s’inarca s’inalbera s’allunga | si ritrae e sbatte | torna a riaffacciarsi e rientra di corsa | saggia gli anfratti e inciampa negli spigoli | si sgraffia e scappa | non trova riparo e si taglia | perché non sa dove sloggiare | tanto è indemoniata”. Con Mariangela Gualtieri: “Una volta ero piccola, ero senza parole … Una volta c’erano solo tre o quattro chili di me, solo pochi chili di me, solo pochi chili avevano il mio nome”. Con Annelise Alleva: “Quando ti conobbi saltavo sui letti | e salivo sui monumenti per mettermi | bene in vista agli appuntamenti. | Poi ti aspettavo con le gambe ciondoloni | e pura era l’attesa, non fingevo daffare”. E Patrizia Valduga (altra consorte di poeta, ma senza fumus di competizione): “Oh no, non lui, Signore, prendi me, | che sto morendo più di lui, Signore, | liberalo dal male e prendi me! | prendi me, per giustizia, me, Signore, | per la vita morente dentro me, | per la vita che vive in lui...Signore, | sii giusto, prendi me, donna da niente, | e vissuta così, morentemente...”
Poetesse con la tempra di Sylvia Plath, che però sono vive e non intendono smettere. Cui insomma la morte basta e avanza come irrecusabile fonte d’ispirazione.

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Suicidio, traduzione:
povera Plath
morta due volte

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 13 dicembre 2003

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