L’ospite incallito di De Luca, poeta in prosa

Si sa, un a capo non fa poesia. Ci sono pagine di prosa densissima da cui zampillano versi perfetti, come in Gioco e teoria del duende, la splendida conferenza di Garcia Lorca sul demone d’arte, oggi tradotta da Enrico di Pastena per Adelphi (“Per cercare il duende non c’è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri”; “…un vento che odora di saliva di bimbo, erba pesta e velo di medusa, e annuncia il costante battesimo delle cose appena create”). E, per contro, c’è il fogliume degli orengocucchi, che, per quanto si dannino a mozzare righe su righe sperando di cavarne versi, non riescono ad aprire varchi da cui spiri un singolo alito di poesia.
In mezzo, tra l’anima poetica che s’incarna in qualsiasi getto d’inchiostro e l’imperterrita prosaicità del poetastro, c’è Erri De Luca.
Poeta quando scrive in prosa (persino nei trafiletti di giornale, come quest’estate per Repubblica, celebrando l’alpinismo: “Scalo per dare le spalle a tutto… Scalo per stare dentro una nuvola… Scalo per sbucare oltre la nuvola e asciugarmi al più personale sole.”), il De Luca in versi è sostanza mercuriale, formidabile nel darsi forma lirica ma incapace di mantenerla, com’è tipico di chi abbia in dono il pensiero poetico ma non l’istinto, non la naturale capacità di armonizzare fino in fondo suoni e visioni.
Se imbrocca un’immagine sublime per senso e timbro, De Luca è capace di guastarla col non volersi fermare in tempo – come ad esempio in “Mosse,” componimento tra i migliori del suo recente L’ospite incallito (Einaudi), dove la bellezza del distico “In bocca ho una stanza di baci rinchiusi | che fanno il rumore di un alveare” viene sgangherata da un supplemento di metafora forzata fino al grottesco, in un rintronante e sconsiderato crepitio di p: “Poi il corpo si precipita alle labbra | come alla porta della città per applaudire.” Quando conia un finale d’amore perfetto per suono e senso (“Mi sono innaturato: è più leale. | M’innaturo di te quando t’abbraccio”), ne mette a repentaglio il conseguimento con un incipit di vano e sgraziato didascalismo (“C’è il verbo snaturare, ci dev’essere pure innaturare, | con cui sostituisco il verbo innamorare”). Se la mente poetica gli ispira nuova linfa per una vecchia verità, il cerume prosastico gliela fa stonare a colpi di assonanze e zeppe spoetizzanti (“Lo saprà fare bene il corpo, di morire, | non ti devi commuovere per questo, | però ti devi accorgere in margine a te stesso, | di una crosta terrestre a immagine del mondo”).
Né giova a liberare l’ispirazione poetica lo sbandierato autobiografismo che permea la raccolta: un’ostentazione dell’io che sorprende in un autore solitamente restio a proporsi come stampo universale, e che in certi passaggi – lì dove la biografia pencola tra vacua nostalgia temporis acti, corriva autocronaca da poetastro, rambeggiante reducismo di un ego dai trascorsi maneschi – risulta tanto stucchevole quanto stridente (“L’amicizia maschile è scambio di coltelli | per chi si è visto decimare i ranghi dai tradimenti”; “Dov’è quella stanza, ragazza di autunno dell’80? |…| Ora tra noi si recita l’età | per disgusto di essere attraenti”; “Anch’io durante una perquisizione l’ho ficcata in gola | senz’acqua e senza vomito, la carta.”). Un’eccessiva attenzione al sé che forse ha radici e spinta nell’esperienza di un’infermità vissuta poeticamente (“Dopo l’infarto io guardo il calendario, un quadro | astratto, | il tempo è diventato un supplemento”), ma che nondimeno zavorra di banale e artefatto gli slanci di poesia profonda con cui De Luca sa spesso dare respiro di struggente allegoria anche al quadretto più asfittico (“Da lontano la mano continua il saluto | che è la mossa di cancellare un segno alla lavagna”) o racchiudere in poche pennellate whitmaniane un intero affresco di vita (“Il tu scaraventato al cielo come un pugno, | quand’esce dal dolore gronda diritto pieno e sacrosanto (…) Non erano bestemmie, | era lo stesso tu delle preghiere, sferrato per chiamare | l’altezza ad abbassarsi”).
Per dirla col suo titolo, insomma, De Luca insiste a frequentare la poesia da ospite incallito. Peccato, perché ha i numeri per farlo da anfitrione.

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Erri non più:
a furia di rimpianti,
Eri de Luca.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 2 gennaio 2009 per Poetastri.com

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