L'ultima burla di Edoardo Sanguineti

Sanguineti era uno di quegli intellettuali che negli anni Sessanta teorizzavano la scrittura pur di non imparare a praticarla. Insieme ad Angelo Guglielmi fu uno degli esponenti di punta del neoavanguardistico Gruppo 63, con la differenza che Guglielmi ci avrebbe dato la Raitre dei tempi d’oro, mentre Sanguineti si sarebbe dedicato a insegnare quell’italiano che per lui aveva senso così: “Eppure, io sono un supermaschietto: / se occorre, anche con gli alluci io ti fotto: / in una fica, il mio fico è un raschietto // ho un fico molto fico, ecco, e fa effetto: / ma a fottifotti, lo ammetto, si è rotto: / è con due pugni ormai che do diletto” (da Mikrokosmos, ed. Feltrinelli).

Sanguineti sosteneva l’organicità dell’intellettuale, quindi l’inevitabilità che l’atto artistico si traduca in atto sociale. Ecco alcuni suoi versi che, all’insaputa di Gramsci, rappresentano cosa egli intendesse per atto artistico-quindi-sociale: “TOrri, TOrtelli, TOtani, TOssine / NIcchiano NIdi, NInnano NInfetti, / NOn NOminando NOtti NOvembrine // CONtrastano CON CONcavi CONfetti / TEste TEatrose, TEnere TErrine:” (da Il gatto lupesco, ed. Feltrinelli).
In un soprassalto di poesia, l’anno scorso il garante per le telecomunicazioni Corrado Calabrò ha immortalato i versi di Sanguineti con questo distico: “Privo di senso e saputo, / come le nonpoesie di Sanguineti” (da La stella promessa, ed. Mondadori). Forse si riferiva all’omaggio che Sanguineti dedicò a Pascoli: “Io ti farò cucù e curuccuccù, ragazzina lavandarina, se mi bacia il tuo bacio | a chi vuoi tu: ti farò reverenza e penitenza, questa in giù quella in su, | suppergiù: e tra i tonfi dei miei gonfi fazzoletti poveretti, ti farò, con le mie pene | cantilene e cantilene…” (op. cit.).
Sanguineti lavorava anche per il teatro. Proprio in questi giorni, all’insaputa di Euripide, va in scena al Teatro Greco di Siracusa la traduzione sanguinetiana dell’Ippolito/Fedra. Ogni sera, l’attrice Elisabetta Pozzi e il regista Massimo Castri, bravissimi, cercano di rendere recitabili o almeno comprensibili passi come: “Ma noi – i giovani, infatti, non sono da imitare, / che pensano così – come conviene, a schiavi, dire”. Secondo Sanguineti, questo shangai di parole equivarrebbe a “grecizzare l’italiano”. Grecizzando grecizzando, i personaggi di Euripide finiscono anche per dire cose strane – per esempio quando trasformano in dovere (“gli dèi, infatti, padroni bisogna chiamarli”) quella che per Euripide, all’insaputa di Sanguineti, era una scelta. Il che, in una tragedia greca, fa un certo effetto.
Adesso Sanguineti non c’è più. Che dire?

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 19 maggio 2010 per Libero

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