Misteri dell’editoria italiana. Perché un editore come Fandango pubblica una raccolta di versi come Il suono del colore? Perché una roccaforte del giovanottismo illuminato e globale si presta ospitare il senile pavoneggiarsi italiota di un Gianni Clerici? Eppure Domenico Procacci – ossia Fandango – all’inizio della sua carriera di editore pubblicava le splendide poesie-romanzo di Dorothy Porter. La maschera di scimmia fu addirittura il primo titolo della casa editrice, seguito da altre opere della poetessa australiana.
La poesia – poesia vera, non prosa fatta a pezzi – era dunque un valore fondante di quell’impresa, nata da una costola dell’omonima casa di produzione. E allora, cos’è successo nel frattempo? Come mai un intellettuale così ispirato (fu il primo a pubblicare in Italia Foster Wallace, con La scopa del sistema, e l’unico a dedicare un’edizione dignitosa a La modification di Butor: entrambi capolavori di poesia dissimulata in prosa) si è ridotto a pubblicare questo “diario intimo e segreto” – come lo definisce con tenera insensatezza il risvolto – che con la poesia non ha nulla a che fare? (E sarà per questo che alcune copie, come per un’inconscia rivolta del marchio all’ospite inadatto, hanno la copertina montata al contrario?)
È pur vero che qui Clerici, celebre per le verbose telecronache di tennis (“trapuntate [sic] di sospiri e aneddoti”, sempre stando al geniale redattore), è finalmente costretto alla laconicità dalla struttura del verso. Ma è l’unico limite cui si sottometta in omaggio al poetare. Per il resto, a parte qualche felice eccezione nei componimenti in forma chiusa, svaria a briglia sciolta tra povertà di senso e sciagura di suono (“Tu cammini con me traverso il mondo / solo adesso comincio a amar la vita”); tra haiku sciancati (“Ricchissimo padrone / di uno sguardo / sul fiorire / dei peschi / a primavera.”) e bamboleggiar di farfalline e formichine; tra bave in foglia di fico (“dove tu sei più bella / è nella vulva / un misto di animale e di marino / un sapore ferino…”) e spassose esibizioni cosmopolite da Arbasino piccino picciò. Così piccino, e così picciò, da cimentarsi con compiaciuta insistenza in lingue che rivelano d’essergli più estranee che straniere (vedi quando, in un componimento arditamente in francese, tratta al femminile il maschilissimo thème), col buffo risultato di sfigurare proprio lì dov’è più evidente l’ansia di figurare.
Va tuttavia dato atto a Clerici che l’involontario effetto comico è in parte colpa del curatore Marco Desiati. Il quale, tra i tanti paroloni che sventaglia con euforica approssimazione da neofita, gli dà ripetutamente dell’umanista. Perfino dell’“umanista contemporaneo”. È dunque ovvio che quando poi ci si imbatte in roba come “Vanno in cancrena i graffi / ma di vient de paraître, / noi siamo tutti avidi”, l’idea che l’abbia scritta un umanista trasforma il sogghigno in risata.
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È breve il gesto
dalla racchetta al verso.
Ma alta è la rete.
Articolo di Sergio Claudio Perroni dell'1 agosto 2011 per Poetastri.com