Tinello esistenziale in rima e referti trombotici in nota per l’asilo in versi di Bonaviri

Non per niente qualche giorno fa, sulle colonne del Corriere, un critico serio e compassato come Giorgio De Rienzo s’è fatto prendere dalla d’orrichite (disturbo culturale che genera entusiasmo ossessivo e adolescenzialmente smodato verso scrittori d’ogni livello) e ha riversato su Bonaviri lodi così iperboliche da far strillare “capolavoro” a un titolista debole di nervi e di letture. Prendiamone atto: Giuseppe Bonaviri è un fior di scrittore. Talmente fior, da trovarsi “spesso nella rosa dei candidati al premio Nobel” – dice De Rienzo, che evidentemente ha accesso alle segrete aiuole dove vengono coltivati i Fo di domani. Talmente scrittore, quel fior di Bonaviri, da esser tradotto “persino in arabo e in cinese” – e questo è Lui in persona a dirlo.
È dunque naturale che ne I cavalli lunari, il suo ultimo bouquet nel sempre più trasandato giardino dell’editore Scheiwiller, Bonaviri affronti soggetti di un’universalità tanto sublime da far tremare le vene ai polsi. Soggetti che spaziano arditamente da suo zio Michele al nonno paterno e a quello materno, dalla prima comunione dei nipotini al suo “secondo (e ultimo) matrimonio”, senza contare i ricordi d’infanzia di Bonaviri, e l’ottantesimo compleanno di Bonaviri, e “la sorella primogenita della madre di Bonaviri”, e via di seguito. O meglio: e via daccapo, poiché in tutt’e centoventicinque le pagine di quest’opera somma non c’è un solo verso che si avventuri fuori dal tinello esistenziale dell’autore.
In realtà non c’è un solo verso tout court, visto che come densità lirica siamo all’asilo di “C’è chi nasce c’è chi parte, | in cielo c’è il pianeta Marte. | Innamorato della terra | il suo colore le (?) disserra. | In un lontanissimo paese | arroccato sopra un monte | sta suonando mezzanotte | sopra tetti e sopra grotte…”. E che come musicalità, per tacer della lingua, il livello è “Ora avvenne il 9 agosto 1994 che la luna | ebbe emorragia retinica all’occhio destro1, | e lassù i lunari corsero alla finestra || verso la terra, e in ispavento a lungo sulle dune | nel mare crisium cantarono galli e grilli | ché la luna non riusciva ad attrarre la terra. || Che traballò su se stessa offuscata. Presto si disserra | la porta del cielo sul monte Càira, | verso Cassino, Silvano Savo e Giovanni Sturniolo2 | con giganteschi grandangolari oftalmoscopi…”.
Ma a svelare la magia di questi componimenti, solo all’apparenza sgraziati e sciocchi, provvedono le mille note che Bonaviri vi appende con la modestia d’un Renato Minore qualsiasi, quasi li vedesse anche lui incapaci di senso.
Ecco ad esempio come arrotonda i versi di cui sopra: 1 In tale data, l’Autore ebbe emorragia retinica all’occhio destro da trombosi parziale della vena retinica centrale.” 2 Sono i nomi dei colleghi oculisti di Frosinone che assai affettuosamente seguirono in quei mesi Bonaviri”.
Che climax poetico, il referto trombotico! Quante nozioni avvincenti! E lo squisito annotarsi in terza persona, a mo’ di Sioux? Peccato venga meno quando Bonaviri celebra gli onnipresenti nipotini, così cari da fargli dimenticare di non darsi troppa confidenza: “Quel 21 settembre maturavano a Velletri1 | le pesche, e tetra scompariva la notte…” 1 Mio nipote Leopoldo – come anche Niccolò e Raffaella – sono nati a Velletri per mano della ginecologa Viviana Proia di cui mia figlia, e tant’altri, hanno grande stima.”
Sì, il tenore di queste chiose può destare il sospetto che gli servano per saldare parcelle sociali e darsi una commemorata pure a pie’ di pagina; ma non è così: abbiamo anche utili note di cultura generale, come l’elenco dei “batteri più usuali e più frequenti rinvenibili nel cavo vaginale”. E tante ancora ne vorremmo, che magari spiegassero come si faccia a dormire “in senso verticale al materasso” e perché mai egli chiami anagramma l’acronimo; e che in “l’ape rupestre in un sussurro | irrumava i fior del cerfoglio” indicassero anche ai non latinisti l’infelice immagine d’un insetto che si fa spompinare da un fiore. Ma chissà, forse le tiene in serbo per il discorso di accettazione del Nobel.

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Tradotto è Bonaviri
in tanti idiomi.
Fuorché l’italiano.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 24 aprile 2004

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