Andreoli spaccia per tessere di mosaico i suoi pensierini in gita all’ufficio postale

Per prima cosa piantiamola con questa storia delle tessere e del mosaico. È la più sgualcita delle metafore d’accatto, il più sgonfio degli espedienti con cui redattori svogliati e copywriter inetti tentano di rendere appetitose merci prive di appeal. Ormai anche il più gonzo dei lettori sa che quando un risvolto di libro parla di “mosaico le cui tessere…” sta solo cercando di sbolognare ciarpame che l’autore non sia stato capace di amalgamare. Un po’ come quell’altra gran risorsa da creativo in panne, l’antitesi a gogò: romanzi anche un po’ non-romanzi, registri tragici venati di comico, tuffi in un passato che gronda presente, e via ossimorando fra carne velatamente ittica e altra rigovernatura da imbonitore.
Ecco, nel caso di Versi sotto la terra, fatica poetica dello psichiatra Vittorino Andreoli pubblicata in questi giorni, il risvolto (che esordisce decretando “E’ ormai noto che Andreoli considera la sua attività letteraria come un tutto unitario”, però non svela a chi e in virtù di cosa debba esser noto siffatto dogma), definisce appunto “tessere di un mosaico” le poesie raccolte nel volume – o forse i temi che le ispirano, non è chiaro. Comunque, e per l’esattezza, specifica trattarsi di tessere “preziose”.
In effetti, come tessere di mosaico hanno quantomeno la preziosità dell’insolito: sono tutte identiche. Stesso tono, stessa forma, stesso colore: grevi mattoni neri che ripetono un unico, nerissimo motivo. Tanto da rendere futile quel dubbio, se a esser spacciate per tessere fossero le poesie o i temi. L’Andreoli improvvisatosi poeta sa infatti esprimersi solo con un verso bitonale, da civetta: Io-Morte; e abbeverarsi d’un tema unico, a universalità limitata: Morte-Mia.
Quella di Andreoli è una poetica, per così dire, fondata sul non esattamente inedito concetto di deperibilità della vita umana; in più, trattando in particolare della pellaccia sua, tale concetto viene declinato con lo stupore rancoroso e ossessivo di chi continui a scoprirsi vittima di un brutto scherzo. Leggere le “tessere” di Andreoli è come sentirsi strattonati alla manica da un seccatore che voglia conto e ragione della propria mancata immortalità, per giunta a via di lagne informi, piatte, senza neppure un po’ di studio con cui renderle se non coinvolgenti, se non interessanti, se non passaggio d’esperienza e perciò vere poesie, almeno ascoltabili.
Per fortuna, a movimentare un po’ la lettura c’è l’incessante deflagrar di puzze (perlopiù di merda, ma anche di cadavere), e anche qualche paradosso tanto facile da far sorridere (“Vivo nel sogno | d’una morte immortale.”), e passaggi che non significando nulla sembrano dire qualcosa di finalmente diverso (“Anche l’ombra di Hemingway | s’è fatta scarica | d’una marmitta idiota e veloce.”) o magari neppure quello, ma che almeno suonano allegri rispetto al resto (“I corvi sono giunti | rumorosi | non c’erano altro che ossa | inutili persino per chi vola | leggero in cielo”).
Dalla prima pagina all’ultima– ovvero nei vent’anni (1978-1999) coperti da questa raccolta di chiasso soporifero – non cambia mai nulla, neppure l’assillo di stilemi che stuccano già al secondo rintocco (“La paura | mi colora d’eroe | nel cimitero dell’inutile”, “Attendo stanco la sera | per colorarmi di buio”, “…e il mio dolore si colora di tiepido cielo”, e via colorando).C’è magari qualche frisson di maledettismo anarcoide, salvo poi scoprire che, per esempio, il cimento affrontato dall’autore “per sfuggire | alla spada sguainata del potere” è una non proprio sediziosa gita all’ufficio postale.Le uniche differenze fra il prima e il dopo sono grammaticali: un certo fermento flessionale (dal “sarcofaghi” di ca. 1975 si passa al “sarcofagi” di ca. 1995) e una seria regressione testimoniata dal moltiplicarsi dei “mio” e dei “questo” da diario delle elementari.
Completato il mosaico, resta un cruccio: che il “Me ne andai | con i miei versi in tasca | e non li inviai | a nessuno” di uno degli ultimi componimenti sia una bugia. Perché Vittorino quei versi li ha inviati eccome. E Rizzoli non ha avuto il buon senso di rispedirglieli indietro.

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Facile ironia:
Andreoli poeta?
Robe da matti

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 2 ottobre 2004

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