Sì, in effetti è vero: in poesia far sesso senza far ridere è difficile. Il problema è che, come è impossibile far sesso a parole, così non esistono parole capaci di farsi efficacemente sesso – men che meno quelle delegatevi per lessico, e magari sottoposte alla ridicola purga dei poetastri imbiancati, al burka semantico che storpia la fica in “vulva” e il cazzo in “verga”. Sicché l’unica soluzione è ricorrere quanto più possibile al figurato e guardarsi accuratamente dal letterale, prassi che però in poesia come nella vita riesce assai difficile agli uomini e naturalissima alle donne (vedi Rosaria Lo Russo e Patrizia Valduga, formidabili autrici di versi erotici).
Perfino Raboni, superbo poeta superbamente capace di render carne il pensiero a colpi di parola, quando si apriva all’esplicito steccava di brutto; e i suoi versi che si volessero più apertamente lascivi – pochi, per fortuna – finivano o in penosa forzatura (“Mi deliziavo ai tuoi racconti | d’amore solitario…|Ma avevo un bel pregarti: | preferivi il mio cazzo, le mie mani”) o in cliché da pornofantasia (“Nel bar pieno, fra gente | giovane che mi guarda e ti saluta, | il tuo bisbiglio spudorato, | docile, rauco: Vuoi che te lo succhi?”). Ma Raboni era, appunto, poeta: sicché riusciva a schivare il grottesco anche quando a dettargli il verso fossero impellenze non proprio liriche, e a voltare in mirabile metafora perfino l’allusione più ardita: “E ti scusi, contrita | più adorabile | nel faccino devoto, | di non avermi deglutito, come | se avessi rifiutato | l’ultima parte della comunione”.
La verità è che i versi d’alcova dei poeti autentici sono l’inevitabile limatura di un sentire più ampio, furiosamente più ampio, e, come tale, ben più voluttuoso del sesso. Tant’è che le rare scivolate di Raboni nel pecoreccio spoetizzante figurano proprio nelle raccolte che ospitano anche i suoi versi d’amore più riusciti, castissimi eppure traboccanti di fisicità erotica – come “quando ci scivoliamo dalle braccia | è solo per cercare un altro abbraccio, | quello del sonno, della calma – e c’è | come fosse per sempre | da pensare al riposo della spalla, | da aver riguardo per i tuoi capelli” o “l’iperbole che ami | quella che sei: t’adoro | nella curva dei fianchi, | nel niente del costato” (da Canzonette mortali: lettura imperdibile per chi ami la poesia – e per chi ami tout court).
Ecco cosa capita invece nell’alcova di Edoardo Sanguineti: “Eppure, io sono un supermaschietto: | se occorre, anche con gli alluci io ti fotto: | in una fica, il mio fico è un raschietto || ho un fico molto fico, ecco, e fa effetto: | ma a fottifotti, lo ammetto, si è rotto: | è con due pugni ormai che do diletto”.
Diversamente da Raboni, poeta morto solo di fatto, Sanguineti è poeta mai nato, e l’editore Feltrinelli ha recentemente pubblicato un volumone di suoi versi proprio per festeggiarne il mezzo secolo di inesistenza in vita. Di fatto – e a parte una manciata di inediti il cui livello è quello testè documentato – le trecento pagine di Mikrokosmos sono un’antologia di precedenti antologie che a propria volta ne antologizzavano di ulteriori. Un’omelette di rifritture, cui il povero prefatore tenta di dare dignità coniando formule da menu di nozze e annegandole nell’originalissima metafora delle tessere di mosaico. Ma se da un lato gli estimatori di Sanguineti si dorranno per questa nuova, crudele testimonianza dell’inaridirsi della sua vena creativa, dall’altro gioiranno per tanta occasione di ritrovare gemme dimenticate, quali il significativo “Alfabeto apocalittico” (“…crocida il corvo, cuculia il cuculo, | chiucchiurla il chiurlo & crepita col culo: | cecato mi è il colòn, cacato ho il cazzo, | chiudi ‘sta cantilena, can cagnazzo:”) e il pertinente “Omaggio a Pascoli” (“…io ti farò cucù e curuccuccù, ragazzina lavandarina, se mi bacia il tuo bacio | a chi vuoi tu: ti farò reverenza e penitenza, questa in giù quella in su, | suppergiù: e tra i tonfi dei miei gonfi fazzoletti poveretti, ti farò, con le mie pene | cantilene e cantilene…”). Roba che giustamente aspetta solo d’esser ri-ri-antologizzata.
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Morto Raboni
vivo Sanguineti,
è viceversa.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 6 novembre 2004