Diagnosi di anoressia per i versi della Llera, richiesta di immortalità per la Romagnoli

Finito all’ospedale per un incidente di moto, con due costole rotte e la prospettiva di venti giorni immobile a letto, ha chiesto non fiori ma libri di poesie. Il figlio, responsabile dell’incidente – e, come tale, ovviamente illeso – gliene scodella subito tre. Ha l’aria di non essersi impegnato granché nella scelta dei titoli da acquistare, forse perché si ritiene comunque imperdonabile. Fatto sta che il primo non è un libro di poesie bensì un romanzo: La sottile inquietudine delle guardie del corpo, di Mark Costello.
Dev’essergli piaciuto per il titolo; a lui invece piace per il perfetto equilibrio fra dimensioni e peso. In Italia è quasi impossibile trovare volumi davvero ben fatti; è sempre roba sbilanciata, di solito nel senso dell’altezza, e per di più farcita di cartaccia da pezzenti: delusione tattile che, come in altri campi, ne garantisce una intellettuale. Questo, invece, dà piacere già solo a tenerlo in mano. È compatto, denso: largo un palmo e alto non più di uno e mezzo, massiccio senza essere pesante. Non può che essere un bel romanzo – peccato che la narrativa lo annoi.
Il secondo del bouquet è Il tredicesimo invitato e altre poesie, di Fernanda Romagnoli, appena pubblicato da Scheiwiller. “Case cresciute in fretta, alla cui nuca | risplende la morte dei prati. | Bottegucce dall’aria già caduca, | dagli odori confusi. Orti stremati. | Le strade a sera cadono in ginocchio: | dove finire non lo sanno più.”
Ne aveva comprato una copia neanche mezz’ora prima dell’incidente, poi lasciata chissà dove nel tragitto verso l’ospedale. Il fatto che il figlio se ne sia ricordato lo sorprende. “Mia madre dorme, | sul cuscino il profilo di medaglia, |… | dorme con due collane | di rughe allacciate alla nuca, | il sopracciglio in pieghe di pacata meraviglia. | I capelli riposano leggeri | nell’ombra che al suo corpo fa da culla. | Ma la mano s’è arresa, | crocefissa alla vita.”
Sarà lo stato d’animo da ospedale, ma il suo primo pensiero leggendo questi versi è chi scrive così non dovrebbe morire mai. Tantomeno morire dimenticato, ignoto o ignorato, come è morta la Romagnoli. “Creatura appena nata, | cieca – ermetica – nuda. |… | Tocca a te, adesso: rompere il profondo | magma dei sensi, | salire ad esser viva | dalla ferita della tua pupilla, | approdare nel mondo. Innumerata | nell’innumere mare | – infima stilla – | tu – gettata all’assalto della riva?”
Altra sorpresa è il terzo libro: Fine, di Carmen Llera. Il figlio, notando la sua espressione perplessa, si affretta a spiegare di averlo comprato perché sul risvolto c’è scritto che sono poesie. Lui controlla. È vero. C’è scritto anche che ricordano gli haiku – cosa che già di per sé depone male.
Lo apre, e in pratica l’ha già finito. Il che, dato il contenuto, non è esattamente una sventura. Una pagina: “Venerdì di giugno | sembra la fine | senza motivo | a LISBONA”. Un’altra pagina: “Difficile abituarsi al nulla | luglio”. Altra pagina: “Il potere si allontana | brividi e freddo | non tristezza | turbamento”.
Tutto così: settanta pagine di pura anoressia espressiva. Per la bellezza di 8 euro. Più, per far peso, un’appendice di fogli bianchi – caso mai il lettore fosse colto dall’urgenza di annotare il turbamento dovuto a folgoranti rivelazioni quali “Abbiamo l’obbligo di vivere? |io non credo” o a svenevoli diffide ad personam tipo “Non so più vivere | e non posso più farlo | dopo Mogador”.
Torna al risvolto: “Bastano pochi versi sparsi per riassumere il senso di una vita”. Be’, vista la pochezza e la sparsità dei versi, se il titolare della suddetta vita fosse lui si offenderebbe a morte. “Aberrante il pensiero dei vostri corpi | agosto”. I loro corpi, forse; quanto ad aberrazione, però, non gli sembra uno scherzo nemmeno calunniarsi la vita sostenendo che roba simile possa riassumerne il senso.
Mentre allenta la clip della fleboclisi, torna col pensiero agli autori che non dovrebbero morire mai, spesso oscurati da quelli mai nati.

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Vanità rilegata
a caro prezzo.
Trulla Llera verseggia.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 7 giugno 2003

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