Come dannarsi a strimpellare versi e produrre solo stecche. La lezione del prefetto Cucchi

Maurizio Cucchi fa il poeta, e spesso scrive di poesia. Ne scrive sull’Unità e su Tuttolibri, cura il Dizionario della Poesia Italiana e ha una rubrica di consigli poetici sullo Specchio (non quello della leggendaria Cronaca Bizantina, purtroppo defunto; l’altro, quello che si finge vivo a colpi di restyling).
Maurizio Cucchi, dicevamo, fa il poeta. Non lo è, lo fa. Per capirci: non è Raboni, che sventaglia poesia a ogni fiato. E non è nemmeno Balestrini, che pur sforzandosi non riesce mai a dissimulare la poesia di cui è intriso. Cucchi è il contrario: si danna a strimpellare versi e concetti ma gli vengon fuori stecche e stonature.
Gli vengon fuori incipit che sembrano parodie (“Sulla carta si sbizzarrisce il mio cuore, | perciò mi inoltro con Alberto | nel mondo antico di Villapizzone”), e balordaggini la cui sola speranza di significare sta in un’ipotesi di refuso (“Le mani sfiorano oggetti | vissuti in sola immagine, | senza freccia in profondo.”), e metafore forzate fino a sgangherarle (“Mi infilo nel portafogli del mio letto | come una carta d’identità scaduta.”). Se imbrocca un’immagine o un accordo appena convincenti, ne svela subito l’accidentalità annegandoli in un’insensatezza che sarebbe tragica se non facesse ridere per come si crede gravida di pensiero (“Ho sempre pensato che la fine | è più importante dell’inizio | ma se la fine si versa nell’inizio | vengo fuori rifatto”). Talvolta, per fare sino in fondo il poeta, si sforza perfino di sborsare qualche obolo di impegno civile; ma deve precisarlo con apposito titolo, altrimenti nessuno sospetterebbe di impegno astrusità come “Le sole strutture morali | a cui ci affidiamo sono il mercato | e il meccanismo verde” (il poema è tutto qua, inutile cercare altrove il significato di “meccanismo verde”).
Cucchi però non si arrende all’evidenza e continua a fare il poeta, come Nando Meniconi faceva Tarzan. Con la differenza che l’eroe di Sordi lesinava le sue esibizioni da pontile, forse perché oscuramente consapevole di essere ridicolo; Cucchi no: quando gli chiedono di fare il poeta, non si tira mai indietro. Anche perché gli consente un’attività collaterale che sembra gratificarlo molto: revocare patenti di poesia a destra e a manca.
Ultimamente, in un articolo pubblicato sull’Unità, ha ritirato in blocco la patente a fior di cantautori, rei di mettere in musica i propri versi. Accusa già di per sé ridicola, per giunta provenendo da chi non arriva neppure a mettere musica nei propri versi; ma che fa addirittura sbellicare quando Cucchi, con gran sussiego, aggiunge che “poesia e canzone sono due forme di espressione ben diverse, come in fondo ognuno sa”.
Quello che ognuno sa, a dire il vero, è l’esatto contrario (gà etimologicamente: dice niente la vaga somiglianza fra “lirica” e “lira”?). Ma Cucchi ha fretta di sfoderare quella che per lui è l’inconfutabile prova di indegnità poetica: l’assai democratica equazione “popolare = scadente” in cui da sempre gli artisti senz’arte cercano consolazione al successo altrui.
“Se si vuole arrivare ai grandi numeri, è chiaro che va ridotto il grado di complessità del messaggio”, sentenzia il Nostro, cui preme attribuire la miseria dei propri numeri a un messaggio troppo complesso per il popolo bue, che, restio a bocconi di vertiginosa densità concettuale e formale quali “Amo, del resto, questa mia fronte spaziosa | che giorno per giorno immagino e coltivo” e “Avevo una giacchetta fresco lana quasi gialla con disegni galles”, preferisce ruminare le notorie vacuità di Paolo Conte o De André. O del sommo Prévert, cui sabato scorso, dallo scranno di Tuttolibri, questo instancabile prefetto ha ritirato la patente di grande poeta dandogli dell’“incantatore sapiente ma a buon mercato”, “poeta che vuole arrivare subito al suo pubblico, cercando uscite a effetto a scapito della profondità”.
Scempiaggini assolute, che però, esalate dal nulla poetico in cui versa Cucchi, sfiorano l’eroismo. Forse è maturo per il grande passo: a Mauri’, mó facce Tarzan.

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Il premio Carducci
l’ha vinto Cucchi.
Risarcite Giosuè.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 1 novembre 2003

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