Tra paroloni astrusi e paragoni azzardati, l’Albero di Piersanti affonda nelle nebbie

Bisognerebbe codificare un nuovo filone poetastro, quello dei versi – preferibilmente sulla natura – scritti in complichese, libera traduzione dell’italiano in una lingua di termini astrusi, costruzioni contorte, reminiscenze rese maldestramente. Una conversione che porta all’annientamento di quella forza suggestiva che la parola dovrebbe possedere per ispirare scenari immaginifici e vibranti negli animi bendisposti.
Tra i militanti a pieno titolo di questo movimento carnefice dell’afflato bucolico va annoverato Umberto Piersanti, che, nella sua ultima raccolta L’albero delle nebbie (Einaudi, pag. 174, € 12,50), ci regala brani di tale limpidezza: “toccano quasi il campo | e sono folte e fitte, | basse come non mai, | fisse nell’aria nera, | solo d’inverno, | quando cessa novembre, | entra così lucida | e spessa tra le foglie” (chi?).
A frenare il già arduo tentativo di perdersi languidamente nella lettura, arrivano poi parole come bersigana e maesa e cerilo e burburana. La ragione che spinge l’autore a usarle è imperscrutabile, col risultato che il lettore deve fare continuo ricorso alle note, che però aiutano fino a un certo punto, poiché Piersanti decide solo a capriccio cosa rivelarci: alcuni nomi li lascia avvolti nel mistero, altri invece li spiega due volte, come lo “scotano” e tal “piccola Arianna”. Infine, in un accesso di ansia chiarificatrice, ci comunica: “dal Ponto dove siamo confinati: è chiara l’allusione ad Ovidio”. Tanto chiara da necessitare una nota a spiegarla.
Ma a lasciare interdetti è anche la quarta di copertina, che prova a fare il suo onesto lavoro di propaganda con l’annunciare un’allettante “nuova fase” della poesia di Piersanti. Peccato però che, incautamente, il redattore dichiari come nel libro “i ricordi personali del poeta” convivano con “favolose leggende popolari”; dichiarazione un po’ rimasticata e di fase tutt’altro che “nuova”, visto che Nel tempo che precede (anno 2002, sempre Piersanti, sempre quarta di copertina) era “sfumato fra leggenda e ricordi”. Se lì ci si imbatteva in “un mondo evocato nella precisione di elementi ricorrenti (nomi di luoghi, piante e animali)”, qui il motore lirico sarebbe “una natura pullulante di boschi, erbe, piante di ogni tipo, evocate con nomi sempre precisi”.
In effetti mettere in moto la fantasia a proposito di un autore dedito già di suo agli “autoimprestiti” non dev’essere compito facile. Piersanti, infatti, riesce a ripetersi anche nella stessa raccolta, come dimostra la “brionia rossa” che a pag. 124 “ti cerchia | d’acini sospesi | dentro l’aria, | pende sulla tua schiena”, mentre a pag. 20 “pende la brionia | rossa sulla tua schiena”. Per non parlare dei vari “sprovinglo”, “vitalba”, “lubàchi”(accentato, chissà perché) che a frotte infestano le due raccolte quali presunti evocatori di un mondo dall’anima magica e insieme concreta: il mondo della campagna, dei valori ancestrali e imperituri, degli affetti famigliari retoricamente narrati.
Ma torniamo alla poesia “vera e propria”. E qui il bello arriva con un’intervista (rilasciata a Roberto Carnero, pubblicata dal sito della Treccani) nella quale Piersanti così pontifica: “Certo, anche Pascoli, come tutti gli autori che hanno scritto molto, ci ha lasciato delle poesie meno belle, un po' patetiche e lagnose”, e – bontà sua – aggiunge: “In Pascoli ho un validissimo modello”. Bisogna però capire cosa intenda per modello, giacché ogni tanto sembra più che altro scopiazzarlo – e non solo col chiamare “prunalbo” il biancospino. Ecco Pascoli: “E le ventate soffiano di schianto | e per le vie mulina la bufera”; ed ecco Piersanti: “soffia, soffia forte nei campi | turbina tra le macchie | e gli strapiombi | mia tempesta di neve, | un giorno, a mulinelli fitti, | stridevi dentro i vetri”.
Sempre nella stessa intervista, PierPascoli confessa che il modello gli “ha insegnato il gusto per una lingua che non abbia perso la cadenza e il ritmo della musica”. Insegnamento non certo recepito, visto che il Nostro compone roba come “vieni, c’è una strada nel bosco, | no, non la canta, | passa tra le siepi, | il fosso della biscia, nome aspro”, dove di aspro c’è forse lo stridere dei versi, e di musicale solo il passo di “villana” memoria.


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San Pascoli no,
poetastro confuso:
scherza coi fanti.

Articolo di Benedetta Palmieri del 5 marzo per Poetastri.com

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