Poeta da spartito, Pasquale Panella tradisce il pentagramma ma non i fan

E brava l’Iride! Brava innanzitutto per essersi trovata questa sigla così bella, che ingentilisce la retrostante (e un po’ inquietante) “Iri Management Edizioni”. Brava per aver inaugurato una collana di poesia con una raccolta del grande Pasquale Panella. E brava, ma con riserve, perché contemporaneamente lancia un mensile – Opificio – che tra i tanti ospiti ha pure la poesia. Le riserve sono dovute, da un lato, alla presentazione del primo numero, a firma di Alessandro Gentile, tragicamente costellata di smottamenti sintattici e punteggiatura alla cieca: un minimo di editing l’avrebbe adeguata al contesto, così raffinato e curato; e dall’altro al progetto grafico, che, pur pregevole per scelta di carattere e ariosità di stampa, incespica in qualche dettaglio cruciale, come la leggibilità dei numeri di pagina.
Di Panella, si diceva. Ottima scelta, inanugurare una collana di poesia con questo autore straordinario e controverso, celebre come poeta da spartito (le canzoni di Battisti, le pop-opere di Cocciante) e trascurato come poeta da pagina. Ma trascurato, in gran parte, per colpa della sua stessa trascuratezza – se ci si passa uno di quegli slittamenti di senso tanto amati dal Nostro. Trascuratezza che in Panella è l’indisciplina dell’artista puro, convinto che l’opera poetica sia bell’e pronta per come gli fende le emozioni e gli sbotta nel cervello, senza bisogno di mediarla, sfrondarla, addomesticarla col rigore del mestiere prima di riversarla sulla pagina. E così i risultati, in questo Poema bianco, sono alterni sino alla schizofrenia.
Di qua c’è il Panella della poesia furente e romantica, voce e spirito del Cyrano virato da Mario Giobbe (il genio cui Rostand riconobbe di aver migliorato, traducendoli, gran parte dei suoi già perfetti versi): “Eravamo sicuri | che sarebbe stato | per sempre | Infatti lo è | per sempre | Esclusi noi.” E di là c’è il Panella che soccombe alla nefasta tentazione di buttar tutto in sciarada, quello che tratta le parole come crosticine da scalzare per cavarne il sangue dei sensi nascosti: appena ne vede una promettente, mette mano al calembour, e così – in cambio di un sogghignetto da nulla – spoetizza di colpo le sue creature di malinconica tenerezza: “Il nostro amore non è in corso | ma è come un punto fermo | (ma che sta fermo a fare?) | un punto su una carta, | un foglio da poema…”.
Di qua c’è l’amore dolente e beffardo degli abbandonati irredenti, cantato con prévertiana perfezione: “Gli innamorati che non siamo noi | fanno ribrezzo, | incollati con lo sputo | dei gesti d’affetto”; “Una volgarità | Un sentimento | Nell’uno e l’altro caso | sei tu l’uno e l’altro: | due casi di silenzio.” Di là resiste ancora la tempra di ispirazione ma manca l’accordatura del verso, e il senso stenta a farsi suono adeguato, quindi poesia: “Trovo ogni tanto | delle cose tue | Come un orrore provo | un freddo che fa tremare | la palpebra di un occhio | (…) | Con due dita le porto a un nascondiglio | le tue cose | Mi invento un posto | sconosciuto che mi sia | notissimo | per non trovarle più | per caso le tue cose | ma non trovarle più | sapendo dove sono.”
È insomma un Panella grezzo, questo del Poema bianco – e le macchioline d’inchiostro sparse sulle pagine del volume da un grafico avventuroso (evidentemente influenzato dagli interventi di Ralph Steadman sul romanzo Paura e disgusto a Las Vegas) sono un’efficace, quanto involontaria, metafora delle sue impurità stilistiche. Impurità che non compromettono comunque il piacere di poter finalmente leggere le poesie di Panella, e non solo cantarle. Perché versi come “Quando il telefono non squilla | sei sempre tu | che non mi chiami” sono pepite che ripagano di qualsiasi scoria.

---------------------------
Verseggia a cappella
Panella paroliere:
musica comunque.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 4 aprile 2008 per Poetastri.com

Sommario

pus-megafono

Videor

logo_raccapriccio

Sommario

avete-rotto-la-mi

logo_raccapriccio

Sommario

pus-megafono
logo_raccapriccio