Un autore roso dai dubbi prova a chiosarsi da sé

La parola “amore” nel titolo di un libro aumenta del 10/15 % la propensione all’acquisto. Detto in termini meno da pubblicitario milanese: se il capolavoro di Pirandello si intitolasse Uno, nessuno, centomila amori e quello di Tolstoj Guerra, amore e pace, i rispettivi editori incasserebbero ogni anno un bel pacco d’euro in più.
È un assioma noto nel mondo del marketing editoriale, ma lui l’ha scoperto vedendo la figlia velinara acquistare Amore di Manganelli e precipitarsi a leggerlo – per poi, ovviamente delusa, abbandonarlo quasi intonso in cima alla monotematica pila dei libri che possiede, sopra una copia ormai quasi lacera di Dell’amore di Stendhal. In pratica c’è gente che decide di acquistare un libro perché l’“amore” nel titolo la attrae come una promessa irresistibile, qualunque sia l’effettivo contenuto dell’opera. E lui sta per contribuire a quel surplus di vendite automatiche.
Gli serve un’ispirazione per sedare il gorgo di parole gravi che sente frullargli in testa, parole come “per sempre”, “passione”, “felicità”, “amore”, perfino “nozze”. Sanremo non c’entra, c’entra piuttosto la donna che le ha sprigionate e addirittura gliele fa sembrare naturali, nient’affatto avventate, solo in cerca di un contagio poetico per farsi pensare in forma adeguata e, prima o poi, pronunciare a dovere. Perciò è in libreria, nel reparto poesia, e cerca libri che abbiano l’amore sbattuto in copertina.
Il primo che trova è Nella notte impenetrabile, di Renato Minore, e l’amore occhieggia dai versi a mo’ di sottotitolo: “Nella notte impenetrabile, | i sogni si burlano | dei nostri occhi irrequieti || …dove creammo parole molte d’amore | e lasciammo non dette | parole molte d’amore”. Il burlarsi attribuito ai sogni non è esattamente di prima mano, ma la parolina magica impone comunque una sfogliata.
“C’era motilità di venti, | ariose coincidenze anticicloniche, | con minimo barometrico | e puntiglioso comportamento | di isoterme e isòtere…” Temendo d’essersi sbagliato, volta il libro per leggere cosa se ne dica in controcopertina. Se ne dice soltanto: “Testi scelti da Mario Luzi” – e Luzi, poeta da Nobel, induce ad aspettarsi qualcosa di più d’un bollettino meteo.
“Un’anima abita e custodisce il bosco. | Ricordala la fretta | con cui d’estate si chiudono gli ombrelloni | al primo battere della pioggia. | Come una piuma tendo le mani | purché mi tiri a sé…” Mentre si sforza di sfumare l’eco tirolese di quell’orrido “ricordala la”, cerca di immaginare come tendano le mani le piume.
Non ci riesce. Prosegue. E, sempre per colpa di Luzi, incassa una sventagliata di immagini di temeraria originalità (“veloce come il fulmine”, “cadono le messi al colpo della falce ricurva”, “come un acrobata sul filo”) e sfrenata modernità (“fuggevoli ombre”, “notturni silenzi”, “flessuosi cipressi”, nonché fulmini – chi l’avrebbe mai detto – “piovuti dal cielo”).
Ma alla fine qualcosa di nuovo c’è: l’autore, roso da legittimi dubbi sull’evidenza dei propri versi, ha pensato bene di farsi esegeta di sé, con tre paginette di note perlopiù bislacche e spesso esilaranti (“p. 57 «quei busti». Sono, ovviamente, quelli del Pincio, eroi della patria e delle lettere.”).
Ancora incredulo per l’assurdità di chiosare ciò che si reputi “ovvio”, passa a un altro volume di poesie: Amore non Amore, di Franco Marcoaldi. E si imbatte in quella che riconosce come un’impeccabile istantanea del suo stato d’animo: “Raccolta in quell’abbraccio | sull’orlo della sera, | la vita punto e linea | ridivennecerchio. | Fu di nuovo intera.” Gli basta per capire che il contagio è possibile, anche se implica raggiungere la figlia velinara nel famigerato 10/15 per cento.
In attesa di pagare, non resiste alla tentazione di specchiarsi in un’altra poesia:“No, Amore, tu non sei il padre | delle pene. Tu sei al contrario | il bello che rimanda al bene. | Lo so perché davanti a un quadro, | a un volto, a un fiore, è solo | a te, che penso di mostrarli, Amore.” Proprio ciò che pensa di fare lui con quel libro.

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Poeta Minore
è già troppo –
(odiosi i calembour sui nomi)

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 15 marzo 2003

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