Majorino viaggia “nella presenza del tempo” e in assenza di senso

Provate a fare il gioco dello Scarabeo, all’incontrario e con qualche variazione. Ossia: prendete un certo numero di parole (più o meno di senso compiuto), di concetti (anche questi più o meno di senso compiuto), di segni di interpunzione, di citazioni, e, soprattutto, di accenti e di spazi, e buttate il tutto in un sacchetto. Agitatelo con vigore, stendete delle belle pagine bianche, e versateci il mix micidiale. Il risultato sarà molto vicino all’ultima opera poetica di Giancarlo Majorino, Viaggio nella presenza del tempo, e vi permetterà così di risparmiare i 13 euro e soprattutto le 424 pagine del volumone pubblicato da Oscar Mondadori.
In quarta di copertina, l’informe catasta majoriniana viene definita “straordinario poema”, e già questo basterebbe a far uscire dai gangheri. Non tanto per il promozionale “straordinario” (che nel mondo editoriale non si nega a nessuno) quanto per l’irritante azzardo di definire “poema” siffatto scempio. Se a dichiararlo tale sia la prosopopea dell’autore – lanciatosi a massacrare un genere che richiama istintivamente prove come l’Odissea, la Divina commedia, l’Eneide e l’Orlando furioso – o l’approssimazione dell’editore, poco importa. Perché, pur senza credere che si possa facilmente aspirare ad altezze omeriche, ci vuol poco a valutare che non basta certo buttar giù caterve di versi (o presunti tali), e suddividere casualmente in libri e canti le interminabili pagine, per ottenere un poema.
All’assoluta incoerenza del testo, alla totale mancanza di un tema riconoscibile, all’impossibile individuazione di un messaggio o di una morale, si aggiunge poi, inesorabile, la disarmonia della forma. E lo “stile variatissimo e libero”, preannunciato anch’esso dalla quarta di copertina, sembra più che altro un non-stile o, nella migliore delle ipotesi, uno stile a vanvera. Non c’è nemmeno bisogno di scegliere i passi, basta aprire il libro a caso e sgorgano esempi a fiotti : “Visto che bello? | Spiacente: io sono bello | Distratto, lui, poverino: questo orologio | Io… sono un po’ diverso | Un tipo coglionifero | Tu il tappo di un cretino | Caro, questo…”. Oppure: “e ora l’uno e ora il due sale sull’altro | memorandum: sono, alla verità, popolazioni ognuno | è una zia che bacio; e, lo so, e tu il piccolo cugino; | stringo copie di cinema; mùzos mito racconto | anche poi, di legno sdraiate sedie”; o ancora: “rossa salsiccia di capelli serpi attorcigliate o nera | usante più la vulva che la bocca taciturna | son sempre qui che vado, che ultravado”. È facile immaginare che, trattandosi di oltre quattrocento pagine, si possa andare avanti così all’infinito. Ma sarebbe davvero un peccato trascurare il resto.
L’orticaria è sempre in agguato, e a procurare un rush intollerabile ecco il vezzo di Majorino di unire (o dividere) e accentare le parole senza che ve ne sia l’utilità, il motivo, il senso. E se postoguida, quantevolte, similedissimile, pocofare e vetroruscello possono ancora ancora passare per superflue parole composte, o claudicanti neologismi, laereo, lamara, sispegne e concui davvero non si spiegano.
Che dire poi di espressioni tipo uncàzzo, un’ascolto, o rrore, undùro? E di versi come “lei, ansiogenata nello sbando quot. | sagoma interlux, dita di rosmarino | narrabile alleamiche, si fa sottomarino”; e “sal gono fragranti di lenzuolo mangiato riposato ùrta saliamo”?
Non pago, Majorino carica il volume di esercizi in prosa (prosa sconclusionata e orripilante quasi quanto i versi), elenchi, segni grafici, vuoti, parole puntate, ripetizioni. E non tralascia nemmeno di inserire brani – tratti da autori veri, come Doris Lessing o Joseph Conrad – dei quali sfugge la pertinenza, ma che almeno concedono momenti di insperato sollievo.
Alla fine dei conti, un risultato l’editore deve averlo conseguito: risparmiare sulla correzione di bozze. Il caos della scrittura di Majorino sarebbe stato impossibile da sbrogliare; d'altronde il lettore non potrebbe comunque individuare errori o refusi, visto che sono indistinguibili dalle numerose “trovate creative”.
Resta il mistero – e lo spreco – dei quasi quarant’anni impiegati a produrre quest’opera scalcinata; meglio sarebbe stato spenderli altrimenti, magari a leggere poemi. Ma poemi sul serio.

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Fingepoema
Giancar Lomajorino.
Po’, veri Oscar!

Articolo di Benedetta Palmieri del 14 luglio 2008 per Poetastri.com

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