La bottega erudita di Valerio Magrelli, poeta-oftalmologo

Un secolo fa o forse più, a seguito di un non meglio precisato sommovimento tellurico, l’intero edificio della poesia prese a traballare: da allora è fuor di sesto, e inclina pericolosamente alla prosa.
Il corso poetico di Magrelli, che di quell’edificio è inquilino di tutto rispetto, asseconda con grazia il movimento, dall’esordio di Ora serrata retinae fino a questi Disturbi del sistema binario. Ma inclinare alla prosa è formula che va dipanata, e indica cose assai diverse per ciascuna delle sezioni della nuova silloge, articolata in forma di trittico: la poesia civile di Nella tribù, quella domestica di La volontà buona, infine il tentativo di ricondurre conflitti pubblici e privati (Erika e Irak, ammicca Magrelli) a una patologia della coscienza morale delineata in analogia con un test percettivo (L’individuo anatra-lepre).
L’abbrivo di Nella tribù non è dei più fulgidi, fin dal componimento inaugurale (La guace, neologismo che indica la “confusa mescolanza di guerra e pace caratteristica della nostra epoca”, ma si dà forse un’epoca di cui non possa dirsi altrettanto?). Di qualcuno si è detto che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico; qui capita piuttosto di vedere prosa in ghingheri poetici, o meglio un uso tutto esornativo, quasi illustrativo degli strumenti della lirica. Non serve, per dirlo, ripescare nel guardarobe crociano l’abito logoro della “poesia pura”: il pensare e il poetare non vanno disgiunti, purché marcino all’ambio, e il lettore avverta che la germinazione dei pensieri e la fioritura delle immagini sono una cosa sola, che i concetti hanno preso foggia in versi. In poesie come T’amo, pio Stato, vivo tabulato, l’impressione è piuttosto quella di due momenti distinti: si prende un’idea hobbesiana – lo Stato come argine al bellum omnium contra omnes – e le si presta un’allegoria efficace quanto esteriore, posticcia: quella del sistema circolatorio che trattiene il sangue. Ma per questo non ci vuole un poeta: un giurista dell’epoca in cui i giuristi erano maestri di rettorica e di stile (non ambiva Stendhal alla prosa del Codice civile napoleonico?) avrebbe fatto egregiamente alla bisogna. Lo stesso può dirsi della Canzonetta sulle sirene catodiche, sui mali della Tv: se già Ecce Video era Enzensberger in forma di sonetto, qui i toni sono quasi da divertimento parodistico in stile Diario minimo (“Tu ignorala – dì addio | a quel virus dell’io”). O ancora, la Marcia dei pellegrini che cantano la loro preghiera serale, intemerata sul turismo di massa dove si indulge a qualche cliché di troppo (i nuovi pellegrini come “formichine del bello” con “occhi come monete che scintillano”). È forse la nemesi di Didascalie per la lettura di un giornale: a forza di instaurare un rapporto di sabotaggio mimetico con i detriti verbali della civiltà di massa, Magrelli ne subisce quella che Kraus chiamava magia nera.
Certo non mancano momenti felici, come l’epigramma Igiene e teodicea che pare sgattaiolato fuori da Satura (anzi, sembra fare il verso a La morte di Dio). Ma per la poesia vera dobbiamo attendere la seconda sezione, la più scopertamente lirica, La volontà buona. Ci verranno incontro le bellissime Infanzia del lavoro o Elegia, meditazione limpida e quasi sbadata sulla caducità. E ci s’imporranno felici immagini di poesia tecnologica: i rumori di una connessione in rete descritti come i mugolii di un accoppiamento animale, o un’audiocassetta sul ciglio di un’autostrada come una “muta medusa”, una fluttuante capigliatura di nastro magnetico esposta al “vento dei pneumatici”.
L’imagerie ottica e acquatica a un tempo di Ora serrata retinae torna in una poesia dedicata alla figlia (“Allora, stretto contro lo spioncino, | dietro la porta, ho atteso | per vederti apparire deformata, | pupilla e pesciolino | sperduta nell’acquario della lente”), dove riluce dimesso, senza abbagliare, il gioco erudito delle etimologie (pupilla da pupa, equivalente al greco kóre, bambola o fanciulla in miniatura, equorea creatura prigioniera come homunculus nell’ampolla dell’occhio). Ma soprattutto, la bottega del poeta-oftalmologo riapre per il gran finale, L’individuo anatra-lepre: “Mi accanivo sull’Etica, | quando il problema riguardava l’Ottica”. La metafora centrale gioca sullo Unheimliche, il “perturbante” di un’immagine ambigua: vi si può vedere un’anatra, o una lepre, ma non un’anatra e una lepre simultaneamente; allegoria di una scissione della coscienza morale che non solo non implica un conflitto tragico, ma anzi lo esclude per sua natura. L’intera sezione dovrebbe essere dedicata, a rigore, al tenente colonnello Adolf Eichmann, supremo burocrate della Soluzione finale e suprema anatra-lepre: ben più a fondo di Hannah Arendt e di Günther Anders Magrelli scandaglia il suo mistero, che è il nostro, facendo mostra di rimanere ancorato agli abissi superficiali della percezione. È il Magrelli migliore, quello in cui poesia e prosa si compenetrano senza residui. “Ecco il segreto dell’anatra-lepre: | come essere colpevoli | rimanendo innocenti”. Questo segreto, lungi dall’essere “banale” secondo quanto dettava la formula arendtiana, è al contrario elusivo e inafferrabile – come un’immagine ambigua. Eichmann in persona ne diede una descrizione accurata, nel corso del dibattimento a Gerusalemme. Quando il giudice Halevi gli domandò se avesse mai avvertito un conflitto tra l’odioso dovere pubblico e la coscienza morale, tra l’obbedienza del soldato e la riluttanza dell’uomo, il tenente colonnello improvvisò una risposta disarmante per onestà e penetrazione: “Si potrebbe meglio chiamarlo… uno sdoppiamento cosciente, dove si passa da una parte all’altra e viceversa”. È l’anti-Antigone: non un conflitto tragico, sibbene un distratto transitare, quasi fossero sale d’ufficio, tra i due mondi attigui ed estranei della coscienza e del dovere, tra i quali non si genera alcuna tensione, alcuna scintilla. L’unica scintilla scocca quando le due metà, l’anatra e la lepre, si guardano negli occhi anche solo per un istante: ma la scintilla non porta luce, è il cortocircuito che rituffa tutto nell’oscurità (“Fu come inserire un chiodo nella presa: | una vampata, e se ne andò la luce. | (…) Per questo certe lepri sono in grado | di fare paralumi in pelle umana, | mentre l’inconsapevole anatra | volge il viso”). A ben vedere, è l’esperimento che tentò Gitta Sereny con il comandante di Treblinka, Franz Stangl. Con identico risultato: quando le due metà non comunicanti di Stangl si guardarono finalmente negli occhi, ne derivò una conflagrazione fatale: “Io credo che sia morto allora perché alla fine, sia pure per un momento, s’era messo di fronte a se stesso e aveva detto la verità”. Una vampata, e se ne andò la luce. Il libro della Sereny si chiama, pour cause, In quelle tenebre.


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Sposa Magrelli
il canto al cogito:
poesia in forma di prosa.

Articolo di Guido Vitiello del 3 giugno 2006 per Poetastri.com

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