Ecco che fine fa lo Stabat Nuda Aestas di D’Annunzio nella traduzione di quattro poeti contemporanei americani, giusto perché vi rendiate conto di cosa leggiamo quando leggiamo poesia tradotta (ci limitiamo agli ultimi due versi – “Il ponente schiumò nei suoi capegli. | Immensa apparve, immensa nudità” – e al titolo):
“Il vento soffiava schiuma di mare dai suoi capelli. | Ella era nuda. Era sublime.” (Michael Morse, La nuda estate si stagliava).
“Un vento di ponente soffiava spuma dai suoi capelli. | Ella era immensa, nella sua nudità ella era immensa.” (Matthew Lippman, L’estate si stagliava nuda).
“Il vento di ponente schiumava nei suoi capelli. | Si ergeva immensa, immensa la sua nudità.” (Diane Mehta, L’estate era nuda).
“Il vento del Pacifico le incasinava i capelli. | Così di scorcio, sembrava immensa. | Sbattendomi in faccia la sua nudità.” (Rebecca Wolff, Sta’ sempre nuda).
A parte l’inspiegabile controversia sull’azione di vento e schiuma, e ovviamente escludendo dal mazzo il deliquio della Wolff (con proditoria aggiunta di un verso, relativizzazione prospettica della visione, polemizzazione segaiolizzante del nudo): possibile che nemmeno uno su tre riesca ad azzeccare se non altro un frammento di timbro, un barlume di senso? neanche il pur ricalcabilissimo effetto poetico dell’“apparve”? Possibile. Eppure sono poeti. E americani, quindi da sempre ligi all’originale in quanto poco avvezzi alla traduzione.
Figurarsi allora quando il tragitto è in direzione opposta, da un qualsiasi altrove all’italiano. Anche tralasciando esperienze imbarazzanti come il leggendario massacro di Lachlan Young perpetrato da Aldo Nove, la storia delle traduzioni poetiche nella nostra lingua è costellata di malintesi, passi falsi e – quando a tradurre sia un poeta e il poeta non sia Caproni – arbitrii vanitosi. Perfino l’ottimo Raboni, nei suoi Fiori del Male, si concede capricci inutili, come la trasformazione della gloriosa “languida vertigine” di “Harmonie du soir” in uno sconnesso “scosceso languore”. Per non parlare delle traduzioni poetiche per mano di non-poeti (nonché, di fatto, non-traduttori), come quella di Fernanda Pivano ai danni di Spoon River (col povero Garrison Standard, “non-resistant” e “in ethics Christian”, ridotto all’insussistenza di “non-resistente” e al grottesco di “cristiano in etica”; e i cavalli che anziché recalcitrare si “ritraggono” come vezzose damine, per giunta prendendo “sight” per “light”, quindi "alla luce” anziché alla vista di una lanterna).
Sia dunque lode a Luigi Sampietro, che dall’inserto culturale del Sole suona la sveglia ai traduttori di poesia. E ovazione quando Sampietro striglia gli editori ricordando che “un traduttore che non tradisca, e che abbia le soluzioni giuste, lo si può sempre trovare”.
Strano però che Sampietro indirizzi i propri strali su una dignitosa traduzione di Walcott appena edita da Adelphi. Proprio lui che qualche anno fa pubblicava una versione a dir poco sconcia del Migrants giustappunto di Walcott, dove il tradimento cominciava dal titolo (privato con “Immigranti” della componente migratoria e costretto a un traguardo neppure sfiorato dall’originale), proseguiva col primo verso (idem, coi profughi trasformati in “rifugiati”) e, fra iridi mutate in “pupille” e uno “steeple” che nel dubbio se esser guglia o campanile diventava “guglia di campanile”, perdurava in un’indicibile cacofonia fino al verso finale (con nuvole che disertavano l’originaria e ovvia collocazione sopra palme e pioppi per finire chissà perché sotto gli uni e sopra le altre).
E ancor più strano che a difendere la “magica ripresa del suono che si chiama allitterazione” sia la stessa persona che, sempre in quella tragica versione di Walcott, trasformava l’emblematica “mithology of mercy” in una dissonante e stracca “mitologia della pietà” pur non avendo vincoli di metro e di rima, quindi potendo senza spremersi troppo salvare l’allitterazione con “misericordia”.
Vien quasi voglia di chiedere al Sampietro censore come farebbe voltare al Sampietro traduttore quel bel distico di Matteo a proposito di pagliuzze nell’occhio del vicino e travi nel proprio.
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Gallo o non gallo,
Sampietro
tradisce Walcott.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 17 luglio 2004