Non fosse stato per il New York Times, ci saremmo fatti quattro risate sui recenti capitomboli di gente come Davide Rondoni, già poeta di belle e sacrosante speranze oggi ridotto a inanellare piagnistei fanciullineschi in rima melensa (“Come in un abbandono io mi trovo || in un abbandono senza perdono | senza nemmeno più suono || in un abbandono dove mi getta e toglie || solo il tuo viso buono”). Gente rimasta talmente a corto di belle immagini, da autoimprestarsi di pagina in pagina le poche decenti che ancora riesca a concepire (a se stesso, in treno: “È difficile riconoscere il proprio volto | nel lampo che lo fotografa sul vetro, | gli occhi al magnesio degli anni”; dieci pagine prima, a una signorina imbarcatasi per esigenze di metafora: “Sei partita e te ne vai sul mare, nel buio | immenso mormorare | e quali occhi | al magnesio ti guardano dai fondali”). Gente la cui ispirazione è così scaduta (esattamente come risulta scaduto il sito Web dell’autore indicato nel risvolto del suo Avrebbe amato chiunque) da cercare soprassalti di vita proprio in quel patetismo facile e turpe che affetta di biasimare: “Irene s’è uccisa a tredici | anni. Ha scelto | per il suo volo di morire | lo stesso giorno di Cobain. |…| Pagherete per Irene | pagherete caro, dico non so bene | a quale dei fantasmi video-petulanti, ai maestri quasi tutti | orrendi | nella retorica che si son cuciti | di artisti o presidenti. |…| Irene, dolce fascina, | passando per il terribile || hai trovato la fiamma chiara dell’invisibile.”
Non fosse stato per il New York Times, avremmo sfotticchiato – ma con più stizza e più riguardo, data la maggior consistenza del valore tradito – gente come Antonella Anedda, che i pochi versi belli del Catalogo della gioia li assorda con un fracasso di corsivi e grassetti e numerini e titoletti e prosuccia, dove fra oggetti “attraversati” (pur senza intenti ectoplasmatici) e seni “avvolti nel lenzuolo” (pur senza rinvii al martirologio) l’unica cosa che si riesca a udire è un basso continuo di rimandi dotti. È tutto un Rauschenberg di qua e un Giambellino di là, Campi Elisi di su e l’Orcagna di giù, Mozart a destra e Nicola Pisano a sinistra – manco l’autrice fosse uno di quei poetastri che cercano di distrarre dal talento che gli manca sfoggiando una cultura di cui son privi.
Poi, però, è uscita sul New York Times la classifica delle migliori poesie sulla guerra in Iraq, inviate dai lettori e selezionate da Nicholas Kristof (un fior di Pulitzer per il giornalismo, non un qualsiasi invasato con la fissa di scoprire talenti letterari nel baretto all’angolo). Il quale Kristof, dopo aver vagliato più di mille “sonetti, limerick, haiku – e, ahimé, odi” arrivati in un mese di concorso, ha deciso di premiare l’opera di tal James Yeck, da Boulder, Colorado – che qui vi proponiamo per intero (la traduzione è fatta in casa, ma con assoluta ed efferata fedeltà):
Un pezzo di latta è appeso nell’ingresso,
con sopra inciso il nome e «padre» in basso.
Il pezzo di latta luccica di gloria,
perché mai se ne offuschi la memoria.
Il pezzo di latta reca a questa casa fama,
e gloria al suo uomo che dell’oceano solcò la schiuma.
Politici intonano encomi nella pace del prato,
dispensa sorrisi chi prima avrebbe solo sdegnato.
La gente arriva da ogni dove con la curiosità
di vedere quel pezzo di latta, simbolo di libertà.
Grato pegno della nazione al più valoroso dei suoi figli…
Fiera dell’improvvisa fama la gente del posto dice così:
«Ma lo sai cosa significa?» in tono fiero ogni santo dì
al bimbo il cui padre andò in guerra laggiù.
«Sì,» risponde piano lui, « che il babbo io non l’ho più.»
Miglior poesia sulla guerra in Iraq. New York Times (mica Sette). Nicholas Kristof (mica D’Orrico). Con che coraggio avremmo potuto prendere in giro Rondoni perché scrive “dolce bilancia del tuo seno” e “il cuore è un puma sulle alture”?
-------------------------
Poetastri incoronati:
the NYT
they are a-changin’
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 19 giugno 2004