Quando assistiamo allo spettacolo miserando di un illustre prefatore – Ezio Raimondi, nella fattispecie – intento ad acchiappar farfalle o ad assiepare vaniloqui, dovrebbe suonare un primo campanello d’allarme. Apprendiamo così che l’ultimo parto di Sebastiano Grasso, Il talco sotto le ballerine, “continua il movimento di quella medesima scrittura ma parla anche per sé”, e che – tipico espediente allungabrodo da tema in classe – “per certi versi si allontana dai luoghi delle poesie precedenti mentre per altri ne continua il discorso profondo”. Quando poi sentiamo Raimondi invocare la canuta autorità del Compay Segundo delle scienze sociali Zygmunt Bauman, il quale “ha detto di recente che il sesso è un fuoco primordiale” (accipicchia!), il sentore di buggeratura si infittisce. E quando infine ci si dice che la lirica del Grasso sarebbe “singolarmente moderna” perché – sillogismo singolarmente difettivo – parla della sfera intima, e la sfera intima (qui l’autorità invocata è quella di Anthony Giddens) si è molto trasformata nel mondo contemporaneo “fra esperienza moderna e postmoderna”, potremmo anche richiudere il libro, e buonanotte.
E invece l’abbiamo tenuto aperto, se non altro perché abyssus abyssum invocat, e vien voglia di scoprire da quale abisso di nullità Raimondi abbia potuto attingere un così abbondante nulla. L’aspettativa non è delusa, Grasso mantiene tutte le sue promesse. Dopo un climax di titoli tra Henry Miller e Joe D’Amato (Il tuo pube nero befferà la morte, Sul monte di Venere), il canzoniere del nostro vira verso il kitsch degasiano-midcult de Il talco sotto le ballerine, con tanto di Polaroid dell’autore in copertina (donna nuda che si lava i denti allo specchio, resa non identificabile da una maschera appiccicatale sul volto con Photoshop, nello stile degli annunci di scambisti). Messi in guardia dal paratesto, il testo non dovrebbe stupir troppo: un canzoniere “responsoriale” dove ogni componimento del Grasso fa da controcanto a un verso dell’amata (ex amante) Giuliana, a quanto pare anaforista incallita (“Ti voglio quando mi chiami la tua zoccola”, “Ti voglio quando al telefono mi dici: mi pulsa, è duro, vieni subito”, e via salmodiando). Il registro adottato dal Grasso oscilla tra un indecifrabile eufuismo da orto botanico (“Volevo concimare | un figlio fra le tue radici, ma i fertilizzanti | s’erano confusi col fogliame”) e i graffiti neofescennini dei bagni pubblici (“Vorrei morderti, | sbavare come un vecchio sporcaccione | e suggerti grandi e piccole labbra” – segue numero di cellulare).
Recensori più o meno rinomati hanno allestito un sabba negromantico evocando a uno a uno i poeti trapassati che rivivrebbero nei versi del Grasso. Vittorio Sgarbi ha chiamato a raccolta le anime di Borges, Wilcock, Petrarca, Leopardi, Bécquer, Salinas, Saba, Penna. Giuseppe Conte ha invitato al cocktail party di Valpurga anche Catullo, Neruda e Alberti. Entrambi citano ammirati questi versi del Talco: «Basta, mi dico, non meriti i miei baci, | e neppure duemilaecinque telefonate». Duemilaecinque telefonate: se proprio non vogliamo scomodare i canonici ventiquattromila baci, questo malriposto esprit de géometrie ricorda il bacio “che durò un’ora e quattordici minuti” del passo più incredibilmente kitsch dei Sonnambuli di Hermann Broch. Il medesimo passo echeggia peraltro nei versi-nadir della carriera poetica del Grasso: “La paura | notturna della morte fruga sotto | le ascelle” (poche righe sotto al bacio cronometrico, Broch aveva accostato il “tremendo monito dello scheletro” all’“oscurità dell’ascella”).
Ascelle tanatofore a parte, se proprio vogliamo una pietra di paragone possiamo definire Il talco sotto le ballerine un agguato al modello montaliano dei Mottetti. Quelle figure che Montale chiamò di volta in volta “le ombre che scantonano” o “gli uomini che non si voltano”, ricompaiono nel Talco a suggello di versi sprizzanti coattitudine: “Ti parlo per strada | come quando ti guardavo e ti sentivi | rovesciata come un calzino, ma quelli che incrocio | non lo sanno”. La cornetta che in coda ai Mottetti “dialoga con gli sciami del querceto” è caricaturata in questo incipit grassesco: “Una tromba jazz si accanisce contro | una fisarmonica di strada, da un bar | vedo volti nei quali cerco un segno di te”. Ma è anche il Montale “intonarumori” degli Ossi a subire l’agguato, quel Montale che poteva permettersi di fare il verso alla carrucola di un pozzo (“un altro, altr’acqua, a tratti un cigolìo”); l’accartocciarsi della foglia riarsa risuona nel Talco con sfacciata cacofonia: “Un’auto trita foglie | secche che arrota”. Secche-che? Esiste allitterazione più turpe?
Montale tuttavia non è l’unico modello, se sentiamo come Grasso commenta la scelta della sua amata di tornare al non amato marito: “Non accetto il decoro del tuo buon senso | da ragioniere rassegnato al meglio delle sottrazioni”. Qui il richiamo è incontrovertibile: Bella stronza di Marco Masini, con l’immortale: “Perché non scappiamo insieme non lo senti questo mondo come puzza”.
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Altro che talco:
sotto le ballerine,
Grasso che sbava.
Articolo di Guido Vitiello del 3 maggio 2006 per Poetastri.com