In Italia la poesia sembra tutt’a un tratto così in auge (intere collane allegate al Corriere, intere collane allegate a Repubblica, manciate di CD-Rom allegati all’Espresso – giusto per citare le iniziative più attuali) da far supporre, come effetto di tanta popolarità e del conseguente incremento di cultura poetica, un’inevitabile evoluzione degli autori italiani più in vista. Purtroppo non è così. A parte i soliti pochi, gli altri continuano a risultare sterili, afoni, stucchevoli; i rari versi decorosi che riescono a partorire, li dispensano con la studiata grettezza di chi lesini le proprie magre risorse diluendole in un mare di surrogato.
Eppure continuano a intasare e monopolizzare le collane di poesia storiche, quelle che danno prestigio e visibilità. Lo Specchio, per dirne una, sforna a ripetizione opere di poeti che hanno cessato d’esserlo ormai da un pezzo, ammesso che lo siano mai stati, e che oggi sono sì e no posteggiatori senza chitarra, chiosatori di autobiografie mai scritte né richieste, versificatori spompati che, per rimediare una raccolta pur avendo solo due o tre poesie degne di tal nome, buttano giù roba che capiscono solo loro, o magari neppure loro.
Vedi Biancamaria Frabotta, che nel recente La pianta del pane fa scontare al lettore una singola immagine folgorante (“Il mio sonno è un covo di ore mute”) e una manciata di bei versi (“Tu non sai quel che dici, anima mia | … | E nondimeno parli, e fai | come il suggeritore turbolento | che lascia il riserbo delle quinte | e recita al chiaro la sua parte”) tartassandolo di frasi che, per senso sciancato e sghemba familiarità sonora, paiono più anagrammi che liriche (“In armi appari. E già in trappola cadi? | Mendica operosa cui diligente attendo | se rotola la notte al suono del respiro…”).
O Giuliano Gramigna, che in Quello che resta opta invece per l’ammiccarsi addosso (“mon Lacan, quoi faire? ti guardo nel disegno | come se non fossi già morto anzi mai morto. | I quasiamici di Torino | sentenziano che parlo troppo di Lacan | e non possono gradire le mie poesie…”) e snocciola astrusità ampollose con l’aria di alludere a cruciali confidenze esistenziali, in realtà appeso alla speranza che esista ancora qualche allocco disposto a conferire dignità di metafora a qualsiasi corbelleria spartita in versi (“acquasenna macché di memoria d’acqua | perturbante di sperma schizzato | dappertutto una piena seminale | che allarga lo spacco del discorso | ormai balbettio d’infacundus | nel blocco cerebrale || e camminò intatto | nella pienità del dire”).
Eppure è vero: in giro c’è tanta di quella voglia di poesia, e così spontanea, da farne trovare perfino sulle etichette di vino (“Profondi orizzonti, | macchiati dal sole | screziati dal giorno. | Assopiti tenui tra | il candido fragore | di un infinito”: purtroppo sì, sembrano versi di Orengo – ma l’Almanera è un buon Nero d’Avola, sicché al secondo bicchiere migliorano). E si organizzano giostre poetiche con gran seguito e successo, vedi i tornei di “slam” e i loro degnissimi campioni Francesca Genti e Andrea Inglese.
Già, perché i poeti nuovi e veri non mancano: ma sono ridotti alla macchia, nell’ombra di riviste poco lette (G. M. Villalta, in Nuovi Argomenti: “Così le parole di chi si innamora | formano un nuovo colore | sul parlare comune, delimitano appezzamenti | del sentire, contendono alle frasi il nutrimento. | Così si forma la lingua famigliare |…| La lingua che i figli falciano e disseccano | crescendo, disperdono di nuovo per distrazione, | per la pressione del desiderio, per amore”) e di premi poco noti (Elisa Biagini, finalista al Premio Delfini: “reclusa, in | un’eterna mestruazione, | dentro uno | spazio che ha perduto soglia, corpo | liscio di muri | senza porta: || [io dentro | l’uovo nel | tondo di | capanna | sempre | attendo la fine | del sangue]”). I grandi editori, stampa compresa, non li conoscono, non li cercano, non li lanciano.
Sono troppo occupati a lanciare poeti defunti, e defunti che fanno i poeti.
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“I poeti del nostro tempo”
vanta lo Specchio.
Poeti? Nostro?
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 7 febbraio 2004