Quando “manda” fa rima con “Ruanda”. Estratti dal trovarobato ampolloso di Gianni D’Elia

“Scrivere versi senza rima è come giocare a tennis senza rete”. L’ha detto l’attore Roberto Benigni qualche giorno fa, nel corso di un lettura dantesca al Chicago Humanities Festival. In realtà l’ha scritto il poeta Robert Frost qualche secolo fa: ma le cronache degli inviati non lasciano capire se Benigni abbia citato la fonte di questa gemma o se invece se ne sia attribuito la paternità.
D’altronde i precetti poetici di Frost sono talmente belli – e sconosciuti ai più – da non essere nuovi al saccheggio (eccone un paio, tanto per scoraggiare altri tentativi di appropriazione:“Il poeta non prende mai appunti: non si prendono appunti quando si fa l’amore.” “Ogni poesia dovrebbe dire una cosa e intenderne un’altra.” “Poesia è ciò che si perde nella traduzione.”).
A onor del vero la versione originale di Frost si riferisce al verso libero, non al solo poetare senza rima. Ma il principio è lo stesso: la disciplina formale aiuta l’artista ad arginare la logorrea creativa. Nel caso della rima, poi, la presenza di uno schema da rispettare è addirittura uno stimolo per l’ispirazione – se non concettuale, quantomeno lessicale. Purché il poeta, una volta optato per la rete, eviti di ammainarla ogni due o tre scambi, come fa Gianni D’Elia nella sua ultima raccolta, Bassa stagione.
Se per rimare con “manda” ci si accontenta di rovinare in “Ruanda” (“Piove e grandina, che il G8 la manda, | emissioni di anidridi nell’atmosfera, | piove e grandina, a giugno, come in Ruanda…”), allora è meglio lasciar perdere, almeno per riguardo di chi ha pagato il biglietto credendo di assistere a una partita vera. Idem per l’improbo “visori” a puntellare “peggiori” (“siamo stanchi, e li lasciamo nei visori, | lì, dove vincono sempre i peggiori), o “short” e “sport” (“I miliardari che giocano al pallone, in short, | e tutti gli altri miliardari ai loro sport”): roba che neanche un rap di Jovanotti.
Il “peones” con cui sferrare un bel “berluscones” può anche trovare indulgenza grazie al comodo lubrificante ideologico (“Al tempo di bandidos e di peones | vivemmo, fin da quando qui comparve || la bassa genia dei berluscones”). Ma il ricorso al putrefatto “tamerici” per racimolare un’eco a “cicatrici” (“sulle nostre cicatrici | di desio e di rimorso, dentro al nome | soave e infantile delle tamerici…”) è inesorabile stigma di poeta della domenica.
In effetti, Bassa stagione è letteralmente crivellato di vezzi da poetastro. Oltre alle frequenti scivolate nel trovarobato (fra un “ristà” e un “desio”, un “ascosi” e un “rombo ctonio”, è tutto un fiorire di aggettivi enfaticamente anteposti al sostantivo: “patrigne lettere”, “offesa passione”, “arsa brace”, “ottagonale esilio” e simili gingilli da operetta) e al buffo esito di certe velleità icastiche (“col panino sul grembo, si distende | il più giovane, sul gomito la nuca, || e tira un bel sorriso di riposo…” – riposo probabilmente eterno, dopo un’acrobazia simile) sorprende, in un poeta edito da Einaudi, tanto amore per i paroloni – e un po’ anche intenerisce, perché D’Elia se ne fa spesso trascinare in grovigli di dissennata ampollosità, talvolta usandone e addirittura ri-usandone a sproposito (vedi per esempio “soffolto” e “afrore”, che devono piacergli proprio tanto, ma che, screanzate come sanno essere solo certe parole, si ostinano a dire altro da ciò che gli vorrebbe dicessero).
Ed è un peccato, perché quando si affranca dai pretesi “temi civili” (in realtà sviluppati in una nient’affatto civile glorificazione di elite: le “vere e democratiche persone” opposte alla “maggioranza sciocca”), la poesia di D’Elia perde di colpo ogni ridicola patina di anticato e sfodera suoni e sensi di ottima qualità (“noi, gli abitatori del frattempo, | i creatori senza creature, | gli inquilini del nostro malcontento”, “affacciata, come te, alla ringhiera, al niente | di un’esistenza che ignora l’adiacente”). Ma qui l’autore può forse appellarsi a un’altra utile perla di Robert Frost: “Non sono incoerente, sono solo ben assortito.”

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Soffre, D’Elia
di resistenzialismo –
ma l’r è moscia.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 15 novembre 2003

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