I versi per piedi di “Tango” e quelli più lunghi della gamba dell’ex calciatore dimenticato

Forse anche voi siete allergici al tango, tripudio di isteria stilizzata in cui la dama – anziché risultare sensuale, come vuole la leggenda spacciata da qualche porteño misogino – si riduce a scimmiottare a via di smorfie truci e mimica schizoide l’esasperante machismo del cavaliere. Forse anche per voi nel tango argentino c’è qualcosa di iettatorio, e qualcosa di sfigato nel suo versante nostrano, quello degli integralisti del tempo libero che vanno a sudar brillantina e ombretto nelle palestre delle scuole di provincia trasformate in balere pomeridiane. Forse anche voi, come noi, provate insomma un’avversione travolgente per questa lugubre pantomima elevata a fenomeno di costume. Perciò vi guardereste bene dal seguire il consiglio di comprare un libro che si intitola Tango; e che si sottotitola, a mo’ di suoneria da cellulare, “Quella melodia di noi due”; e che si subsottotitola, per fugare ogni dubbio circa il pubblico di riferimento, “La poesia del tango per giovani innamorati”. E fareste male. Perché perdereste l’occasione di scoprire che le liriche del tango, liberate dagli strappi scriteriati della musica e dalla brusca petulanza delle coreografie, rivelano una grazia inattesa; e che questa antologia di parolieri argentini, ben tradotta da Leopoldo Carra, offre ottimi spunti per romanticherie estive.
Inutile aspettarsi poesia, ovviamente: si tratta pur sempre di versi scritti se non proprio coi piedi quantomeno per i piedi, mero tallonamento lirico di passi di danza. Ma non tutti i poetastri vengono per nuocere, soprattutto quando la mente di chi legge è in vacanza e il cuore magari no. Non nuoce, ad esempio, l’Alfredo Le Pera paroliere del leggendario latratore di tanghi Carlos Gardel: “La notte che mi amerai | dal blu del cielo | le stelle gelose | ci guarderanno passare, | e un raggio misterioso | farà il nido nei tuoi capelli, | lucciola curiosa che vedrà | che sei la mia felicità”. E nemmeno il Pascual Contursi di “Che bello aver preso una cotta | e pensando a lei dormire, | mentre la cera che si scioglie | va formando il suo profilo!”.
Versi pieni di freschezza e brio, che smentiscono il celebre marchio di sciagura con cui Enrique Discepolo pensò di nobilitare il tango definendolo “un pensiero triste che si balla”. Tutt’al più si avverte rodere qua e là il nobile tarlo del paradosso d’amore, pienamente reso dal titolo di una lirica di Roberto Fontaina: “Vattene (Non andartene)” – che tuttavia non intacca una gioia di vivere quasi whitmaniana, come quella celebrata da Horacio Ferrer: “…Pazzo! Pazzo! Pazzo! | Salterò come un acrobata demente | sull’abisso della tua scollatura, fino a sentire | che ho fatto impazzire di libertà il tuo cuore… | Vedrai!”
“Ho masturbato | un sogno | perché accadesse.” Sulla corda della pazzia fa l’acrobata pure Ezio Vendrame, il cui Cuore stuprato, edito da Biblioteca dell’Immagine, è un’altra felice scoperta per letture da amaca.
Già calciatore di una certa notorietà, anche Vendrame scrive versi che arrivano al cuore partendo dai piedi. Più che poesie, come si avventura a chiamarle Gianni Mura nella prefazione, le sue sono riflessioni; riflessioni che però, quando non indulgono a un maledettismo di maniera e alla ricerca di metafore o paradossi a ogni costo, della poesia hanno sia l’indole (“L’assenza è | una morte | viva.”) sia l’icasticità (“Perché | scannare | margherite | per | molestare | un dubbio?”). Gliene manca purtroppo il respiro: ma solo per la tipica ossessione poetastra di andare a capo praticamente a ogni parola. Appena Vendrame trova il coraggio di fare il verso più lungo della gamba, infatti, gli riescono quei goal che si negava in campo: “Era un dicembre | di una Milano incauta | quando un poeta | stringendomi forte al cuore | mi invase intero. | È passato tempo | da allora | ma di quell’inesauribile abbraccio | non ho più perso | il segno.” 

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Se suona bene
riescono i passi.
Dribbling col casquè.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 17 luglio 2004

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