L'ultima fatica letteraria di Maurizio Cucchi (Vite pulviscolari, Mondadori) è tale anche per il lettore che si avventuri nel testo senza la necessaria pazienza. Non invece per il recensore che sappia trarre gusto e divertimento anche dai momenti più difficili della produzione poetica contemporanea.
La prima sezione del libro, dedicata alla madre, si intitola - con rimarchevole accesso di fantasia - Il bacio della buonanotte. I baci di cui si parla sono di mamma, ma su gote non di giovanissimo narratore proustiano bensì di uomo ormai attempato; il che, purtroppo, dà al tutto un tono più grottesco che struggente. Pur con il massimo rispetto per i lutti personali, va detto che, se è vero che la madre dei cretini è sempre incinta, quella dei poetastri è spesso defunta (e i sentimenti verso di lei esibiti post mortem). Trattandosi di un topos tipicissimo, ovviamente, Cucchi non fa nulla per schivarlo.
Ecco dunque le corpose ripetizioni seguite da tre puntini sognanti ("mi sto specchiando nel tuo sorriso di ragazza, / e ti dico grazie, grazie...", "questa piccola donna minuta , è ormai troppo / impegnata... troppo impegnata", "Lo so... / quante, ma quante cose, troppe, / da raccontarci, una buona volta, e invece...") e i gozzanismi piccoli piccoli, quali "Chissà se l'hai incontrata in giro / quella ragazza dallo strano nome, / Leonisa, studentessa, la figlia / della contessina grassa, la figlia / di tuo padre". Versi che, se non altro, servono a far rifulgere la nobile figura di Carlotta Capenna, al cui confronto la buona Leonisa, poveraccia, scompare.
E siccome i luoghi comuni non vengono da soli, cosa mai potrà seguire l'elegia di mammà? Ovvio: l'epica del vigore giovanile del corpo maschile! (Meglio se povero, meglio se proletario). E allora via, in un turbinoso susseguirsi di autisti che caricano bagagli (ovviamente con "la cicca tra le labbra, la camicia / appiccicata alla schiena"), operai che si guardano le mani ("Ha toccato la catena e ha le dita / tutte macchiate di morchia" - versi di un'inutilità che ha pochi eguali persino limitandosi alla sola poesia di Cucchi), osti dai grandi corpi, marinai che scendono nella botola ("con uno straccio, fischiettando"), "favolosi" bersaglieri, tute di operai giovani (chiaramente "sporchi di fuliggine").
Qualora non fosse chiaro il senso del riferimento alla primigenia forza eruttante da tali corpi, l'Autore si preoccupa di illustrare alla madre anche con maggior nerbo - è il caso di dirlo - il valore profondo delle sue misteriose allusioni: "Avessi visto invece, come nell'album / delle figurine, la nobiltà del ferro / giovane, abbagliante. Il ferro rosso / di fuoco o bianco incandescente, il ferro / nero freddo, e un gusto forte / di ferro, un odore aspro / di ferro...". Un trionfo di doppi sensi - involontario? - da far impallidire Pippo Franco e Martufello.
Ma gli intrecci tra cultura alta e bassa non si fermano qui. Ecco infatti i versi "Terzo albero a destra, lungo la strada / un cappello, pantaloni blu, e l'impugnatura sinistra. Il rimbombo / alle sei di sera", dove convergono le suggestioni di un Bennato della seconda stella a destra e quelle di un Venditti delle bombe delle sei, quelle che non fanno male. Suggestioni a secco, chiaramente, visto che di musicalità non si ode traccia.
Perplessi, si stenta a credere che tutto possa essere sputtanato in canzonetta, ma subito si crolla rassegnati di fronte a "Dove sei don Egidio? Dove sono / i miei gol di rapina? / Dove sono finiti, mi chiedo, / gli oratori sereni del tempo che fu?". Neanche un prete per chiacchierar, dunque? Possibile? Possibile, sì: basti considerare che la poesia successiva è un tripudio di "Acceso è azzurro opaco azzurro/ Ovvio azzurro che sfuma / Nell'azzurro azzurro che non amo / Ma ormai mi piace azzurro aperto / Azzurro chiuso azzurro inizio / Azzurro fine". Era proprio quell'Azzurro, dunque: nessun dubbio. Aridatece le canzonette originali, allora.
Va detto, comunque, che Cucchi sa fare di peggio. Perché è quando si imbatte nelle domande ultime, che il Nostro rende al massimo. Autore di grandi ambizioni e ancor più grandi pretese, egli non può rinunciare al riferimento ontologico ai Massimi Sistemi: "Ma che cos'è / il nulla?". Oilà, che domandona. Quanto significato, in sì breve distico. E, mentre ci si chiede se per rispondere convenga ascoltare a destra lo squillo di Heidegger, per cui il nulla nulleggia, o basti un rintocco di sempreverde Parmenide, vengono in mente le parole di Giorgio Ficara, lette sul risvolto: "Cucchi con il suo cadenzato passo feriale si è alfine incamminato nella metafisica". Oibò, "alfine". Perbacco, "la metafisica". Riguardo al "feriale": rileggendo i versi del prefato e risalendone il timbro, viene il sospetto che quel passo lo si intendesse, piuttosto, ferale. Il refuso sarebbe l'unica cosa giusta di tutto il volume.
Astro poetante,
si crede Cucchi.
Ma è solo poet'astro.
Articolo di Stefano La Notte del 7 luglio 2009 per Poetastri.com