I versi della domenica e quelli del sabato, uniti dalla stessa passione per gli anemoni e il sesso

Lo fiuti subito, sin dall’attacco della nota biografica, gonfio dell’egolatria surreale e maldestra del dilettante: “Figlio naturale di un generale medico (1903-1985) e della marchesa Giuseppina Camardi Polizzi (1916-1966), Sebastiano Grasso è nato…”. Un altro poeta del sabato.
Rispetto ai poeti della domenica, quelli del sabato hanno un’unica ma cruciale differenza: lavorano nel mondo della cultura o dell’informazione; pertanto, quando decidono di cimentarsi con i versi, godono di benefici che i colleghi domenicali neppure sognano. Le amicizie nell’ambiente – ma soprattutto le inimicizie ventilate – li provvedono di rassegnate presentazioni da parte di poeti veri, di pazienti pubblicazioni da parte di editori di rango, di indulgenti recensioni su testate prestigiose. Vedi, appunto, questo “Sul monte di Venere”, di Sebastiano Grasso, critico d’arte del Corriere: presentato dal metaNobel Mario Luzi, edito da ES con disegni di Mimmo Paladino, e premurosamente recensito a destra e a manca.
Per il resto, nessuna differenza: poetastri gli uni, poetastri gli altri.
Ostentano tutti la stessa incrollabile convinzione che la poesia – come la pittura per gli imbrattatéle – sia un mezzo espressivo praticabile anche da chi abbia ben poco da esprimere e zero rudimenti per farlo con decoro (“…s’inarcano le tue ciglia quando | la mano solleva la gonna e scorre | fra le gambe.” Si inarcano le ciglia? E un’arricciatina alle pupille no? “…l’acqua non scuote i vetri, né l’aria | del giorno, neppure di quelli felici, | di quando aspirare una vagina era il sogno | più grande di un ragazzo quindicenne.” Aspirare una vagina? Da quale rigurgito di Crepet sbuca quest’adolescente che anziché l’astronauta sogna di fare il Bidone Aspiratope?).
Coltivano tutti la stessa smodata e insalubre passione per l’anemone, fiore che in natura prospera solo nelle pagine dei poeti da week-end (“Irrompi da paesaggi di anemoni | perenni: t’immagino così. «Qui tutto bene», scrivo. Ma non è così.” E in effetti anche il doppio “così” conferma che no, caro Grasso: già dal punto di vista poetico non va tutto bene.)
Affettano tutti una vis erotica tanto fasulla e becera da renderla sospetta di succedaneità senile (nel caso di Grasso si va dal machismo patetico di “È forse il momento di stringerti al muro | e penetrarti in piedi, chiudendoti la bocca per attutire il grido” e “Vorrei prenderti e sentirti urlare” a diacci anerotismi tipo “il tuo pube | chiama” e “i polpastrelli saltellano sui seni, | come sui tasti di un piano”, passando per desolanti frescacce tipo “Violare le labbra, i seni, il ventre: | ecco la passione, l’amore.”).
Gli uni e gli altri, infine, sembrano adoperare i versi perlopiù come messaggeria privata, cioè per far colpo, o pace, con qualche recente acquisto squinziesco, tramite riferimenti allusivi a un’altrimenti indecifrabile – e qui nient’affatto invidiabile – quotidianità di coppia: “Ai gatti che t’aspettano hai già dato nomi; telefoni, ti informi | e chiedi se mi appari ninfomane.” “La memoria rimpatria, anche se qualcuno | mi dice che, da un po’, sono fuori | di testa (ma è solo perché amo).” “Ammetti di esserti sbagliata. | Bisognerebbe, precisi, controllare | tracce, umori della vagina.” Sempre che invece non si tratti di ciò che Luzi, nella sua lodevolmente svogliata presentazione al vaniloquio di Grasso, si arrabatta a definire come un “dequalificare l’ordine delle cose e, nello stesso tempo, riunirle in un impasto di comune insignificanza e di generale significato”.
Ma la verità è che esiste un’altra differenza fra i poeti della domenica e quelli del sabato: i primi, abituati ai lazzi dei famigliari, un po’ di senso del ridicolo l’hanno. Per intenderci: se concepissero un capolavoro comico come “La paura | notturna della morte fruga sotto | le ascelle”, penserebbero subito alle pernacchie con cui lo accoglierebbero i cognati. Quelli come Grasso no: sanno che per loro ci sarà sempre un Luzi pronto a ghezzificarlo come un “trarre l’acuto significativo dall’insignificanza”.

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Grasso ciabattino
sforna versi –
ne ultra crepidam.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 15 agosto 2003

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