La pratica della poesia ha spesso a che fare con il coraggio, si diceva qualche settimana fa. Il coraggio, per esempio, di chi si lascia dare del poeta pur non essendolo affatto – e lì si citava il caso di Ivan della Mea preferendo tacere per eccesso di ridicolo quello di Vincenzo Cerami (“Aiuto, aiuto... | M’hai bevuto con un sorso. | Ieri, mio piccolo fiore di smalto, | ho tentato di baciarti e tu mi hai morso. | Tutto, tutto è perduto. | Aiuto, aiuto... | È tardi! | Come puoi aiutarmi tu... | che invece di baciare mordi...”). O il coraggio di chi non ne ha abbastanza da esporsi in maniera diretta, ma pur di esibire in pubblico la sconcezza dei propri versi li attribuisce ad autori inventati di sana pianta – e lì si faceva l’esempio di Ugo Straniero, poetastro sotto le cui inventate spoglie va sempre più straccamente nascondendosi Maurizio Costanzo.
Ma di coraggio – coté incoscienza – è anche la vicenda di chi, a corto di ispirazione e pur di far volume, sabota se stesso mischiando bella poesia e trucioli di taccuino indegni della propria levatura. E qui l’esempio è quello di Alda Merini e del suo editore, che in Clinica dell’abbandono hanno il coraggio di lasciar convivere perle di spontaneo e arruffato lirismo ( “…e gli amori tutti furono commutati in fango | perché non si costruissero palazzi | che non fossero le loro imprese”) con cicalate sentenziose (“ma sappi che la solitudine | è l’unica donna | che non ti abbandona”) e figurazioni così posticce da rischiare a ogni sillaba il distacco dalla pagina (“ma una donna cambia di veste quando si sposa | e lascia cadere l’imene sul cuore di chi ama”).
Coraggio è in realtà anche quello che occorrerebbe a certi poeti nati, che, sebbene capaci di versi infallibili per qualità di suono e densità di concetti, si accaniscono chissà perché a rifugiarsi sotto le insegne di arti più modeste (ovvero qualsiasi altra, giacché rispetto alla poesia sono tutte ancelle). Ed è il caso di Giuseppe Manfridi, forse costretto da una fantasia nevrotica a vedersi drammaturgo e a travestire da pur degni testi teatrali quelle che in realtà sono purissime poesie, e in quanto tali andrebbero destinate alla pagina più e prima che alla scena. E che invece, anche grazie alla cecità degli editori, si possono leggere solo setacciando Internet, come quelle che costellano la splendida Corale dell’attesa:
“Delle sue spoglie | il camposanto s’è fatto gonfio. | Ogni sarcofago pullula di lui | e il sottoterra è invaso | dal dipanarsi della sua estinzione” (a proposito del Cristo appena morto);
“E le parole che dico | queste ad esempio | mi esprimono | o mi riferiscono | come una chiacchiera provvista di braccia e gambe | scaraventata in scena? |…| Sono qualcuno | o ne sono la maschera?” (a proposito di come dirne la morte);
“Sarà forse perché abitate | tra mura stritolanti, | sarà che i loculi in cui giacete | si sono fatti stampo | del vostro ragionare…” (a proposito di come comprenderne la morte).
Coraggio, infine, è anche quello di cui ha dato un’ineffabile prova Mario Luzi, gran poeta che il 20 ottobre compirà novant’anni e che purtroppo s’è ridotto a scrivere più prefazioni che poesie – e prefazioni per giunta svogliate, oscure, frutto bacato di malmostosa condiscendenza ai capricci di cortigiani dalle ambizioni poetastre. Mesi orsono, in un soprassalto di ispirazione, Luzi ha coniato alcune tra le più scintillanti verità mai prodotte da alcuno in tema di poesia: il seme di un’autentica manna sulla sua lunga stagione di sterilità creativa. Ma lui, con l’eroica prodigalità dei grandi dissipatori, anziché svilupparle in versi ha preferito dilapidarle in un’intervista; per di più rilasciata non a una Literary Review foriera di visibilità per quel Nobel cui è perenne candidato; no: che “nel Novecento la poesia si è trovata a riempire la crisi di tutti gli altri accertamenti dell’umano” e che “Le parole del poeta non celebrano la cosa: la fanno vivere, le danno vita. Fanno storia, appunto: vita” Luzi l’ha detto a Bookshop, il mensile dei librai italiani. E così l’hanno letto in dodici. Coraggiosi.
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Non sempre sta
nel farselo dire
esser poeti.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 9 ottobre 2004