Il mesto trovatorato seduttivo del giudice Calabrò, Galante delle Telecomunicazioni

Dice che lui non c’entra, che non fu la sua sezione a bocciare il ricorso di quella felice creatura, nipote seriale di caposaldi estetici del Novecento. Sarà vero, ma è altresì vero che, nei confronti del bello, l’attuale presidente del Tar del Lazio e prossimo Garante delle Telecomunicazioni Corrado Calabrò sembra nutrire un’inspiegabile avversione. Quantomeno a giudicare dai cimenti letterari che abbina alla propria attività di magistrato light e cosparge di tali orrori da far appunto sospettare un’irresistibile pulsione antiestetica.
Non ci riferiamo però alla bruttezza del suo remoto accesso narrativo, mesto pippungsroman screziato di bave e candidato allo Strega del ’99; cinque anni senza ricadute fanno pensare che almeno su quel fronte il soggetto si sia ristabilito. A indicare la morbosa tendenza all’orrido sono piuttosto le sue incursioni nel campo poetico, che durano da trent’anni e non accennano a migliorare né a esaurirsi, quindi hanno tutti i crismi della malattia cronica (o, a seconda del perito, della recidività dolosa).
La sua cuvée poetastra più recente, Calabrò l’ha elargita a tal Aletti editore, per un’opera collettiva dal titolo surreal-pavesino di Verrà il mattino… e avrà il tuo verso e dal sottotitolo bacio-perugino di “Poesie d’amore”. Tre liriche con cui, in eroica rivisitazione della parabola dei ciechi, il Nostro si fa “mentore e accompagnatore” di una cordata di poetastri talmente sfigati da presentarsi cognome-nome, à la carabiniera, e con versi al cui confronto il farraginoso distico che suggella l’introibo di Calabrò – “La tua gamba oltrepassa l’intenzione | mentre entri nel letto dal mio lato” – ha l’icastica compattezza di un Montale.
Non tragga però in inganno l’ardita lettura della minchia ridotta a mera intenzione: Calabrò (che ci tiene a precisare d’esser laureato poeta h.c. nientemeno che a Odessa e Timisoara) è solo l’ennesimo pre-bacucco dedito al trovatorato seduttivo, non certo un autore di poesia erotica come l’ha definito un insigne lettore della sua ultima raccolta (edita dall’altrimenti benemerita Newton Compton, e con “Poesie d’amore” direttamente per titolo). Solo chi sia digiuno di poesia e dimentico di erotismo, infatti, può credere di ravvisare l’una o l’altro in versi di integrale poiché involontaria comicità quali “Non sono ancora stanco | di passare al setaccio acqua e sabbia | cercando la chiave magnetica | ch’apra la serratura del tuo tantra” o “Non t’ho mai vista ridere | se non con altri: | e fai passare la vita | senza chiamarmi.”
E stupisce che, vistasi oggetto di liriche di così sanremesca fattura, la titolare della suddetta top(p)a tantrica neghi un sorriso al loro autore. Vero è che poco prima, con l’aria di farle un complimento, il nostro galante delle telecomunicazioni ha definito “ondulanti” i suoi seni e “golfo” il suo pube – roba che è difficile metta di buon umore. Ma come si fa a restar seri quando Calabrò se ne esce con una delle sue mille figurazioni a pera ( “Come un coniglio dal ventre sfiatato | tasto accanto a me il letto a due piazze”, e “Cocente come il pianto di un albino”, e “Mi ritrovo seduto, con la testa | dalla parte dei piedi del letto”)? O quando attinge a uno sconocchiato mondo anatomico dove esistono gengive situate “vicino alla tempia”, cuori eviscerabili, “ginocchia voltate”, “seni imbronciati” e cataratte trasformate in cateratte? O ancora quando, tra una citazione a cavolo di Pindaro e una a merenda di San Paolo, ne schiaffa una loffissima di se medesimo, per giunta col tono compiaciuto di chi scocchi chissà quale agudeza (“Ricordi il mio primo madrigale? | «Sai perché neanche la luna si trucca? Perché è bella così, del suo pallore»”)? O infine quando, spossato da un velleitarismo lessicale sempre a rischio strafalcioni, tra “attese emunte” e “indugierei”, tra “intridivi una spugna” e “transflüenze”, si incarta nell’afasia di “Ti chiamerò nel buio | con lo stesso linguaggio intermittente. | Luce luce: linea linea; | spento luce: punto linea; | luce luce…”, per poi dover spiegare in nota che trattasi di “m’ami in alfabeto Morse”?
Su, signorina: sbronci il suo seno, ché adesso Calabrò passa dal telegrafo ai telefonini. Vedrà che risate.

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Con versi brutti
corteggia la sua bella –
poetastro in bianco.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 26 marzo 2005

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