“Sotto la camicetta verde c’era un vuoto | di secoli, un atto di bestemmia | e perdono che andavano intrecciati nei viali | di ogni cellula. Sei felice, forse, cammini | verso un punto che ti chiama, | che ti ama senza una parola, con la sola | certezza del tuo piangere” (da Il tema dell’addio, di Milo De Angelis).
Sarebbe bello se per una volta questa colonnina da nulla riuscisse a influenzare la rubrica di rotocalco d’un celebre pifferaio dei facili costumi, attesa dalle migliaia di suoi seguaci; o addirittura il suo teleprogramma domenicale, dove la magia di Hamlin si combina con l’abulia festiva per tramutare quelle migliaia in milionate. Giusto per poter offrire a cotanto pubblico qualche verso di De Angelis al posto dei miasmi rimaioli da cui viene settimanalmente inbesuito con la scusa di avvicinarlo alla poesia. Giusto per mostrargli la facilità con cui un poeta vero sa avvincere ed emozionare il lettore, perfino commuoverlo senza svenevolezze.
Basterebbe poco. Venti righe sottratte al consueto nulla spacciato per realtà divulgata, venti secondi di asmatica lettura di una valletta, e i versi di De Angelis riuscirebbero a strillare poesia anche nelle orecchie più impietrite: “Quando su un volto desiderato si scorge il segno | di troppe stagioni e una vena troppo scura | si prolunga nella stanza, quando le incisioni | della vita giungono in folla e il sangue rallenta | allora i polsi che abbiamo stretto fino all’alba, | allora non è solo lì che la grande corrente | si ferma, allora è notte, è notte su ogni volto | che abbiamo amato.”
L’addio cui allude il titolo della raccolta, tra l’altro, è quello fra l’autore e la sua donna, poeti entrambi. Sicché il pifferaio, istruito all’uopo su un’altra e più celebre coppia di amanti poeti, potrebbe agevolmente alternare ai versi di De Angelis qualche piccante aneddoto sull’amor scabroso tra Sylvia Plath e Ted Hughes, scongiurando così il pericolo di allontanarsi troppo dal registro che gli è più consono.
E il tema di quell’addio è al tempo stesso l’inesorabile distanza che va scavando fra i due la malattia di lei (“l’asfalto | che penetra nel seno”) e la vicinanza beffardamente inutile in cui finirà per serrarli la sua morte (“non andartene, abisso, dal mio fianco”): ottimo pane per i malfermi denti del pifferaio, che potrebbe dapprima fingere un pensoso rovello etico su quanto sia lecito fare incetta di una morte per poi rigurgitarla in arte, e subito dopo dissipare ogni riserva grazie a concetti quali “elaborazione del lutto”, “esorcizzare la morte” e altri abracadabra orecchiati in anni di passerelle di psico-imbonitori. Oppure, sempre per influsso di questa modesta colonnina, potrebbe testimoniare la costanza del tema del distacco nell’intera opera di De Angelis (“Morire è l'infinito presente | di ciò che non si coniuga, una goccia sporca | sui nostri volti ricomposti”), magari illustrando al pubblico i suoi vecchi lavori, alcuni dei quali a portata di mano nel sito di Fahrenheit, colossale audio-memoria di poesie italiane lette dai rispettivi autori (avviso ai cibernauti: il sito è percorso da una musichina che fa tanto Maigret e che già al terzo assaggio urta i nervi; altro avviso: in genere i nostri poeti leggono da cani).
Chez Fahrenheit, piluccando tra un file e l’altro di buona poesia, il pifferaio potrebbe imbattersi nei bei versi di Mario Benedetti Jr.(“A Brest è piovuto una volta per sempre. | Un viso, una corsa sono stati amati per sempre, per sempre. | Ti guardo dalla sabbia che sembra non finire nemmeno lì dove sei"). E magari, sempre su provvidenziale imbeccata, intrattenere i discepoli sul bizzarro parallelo di nome e di sorte fra il Mario Benedetti grande poeta uruguagio (“su svegliati amore | che l’orrore fa giorno”) e questo giovane friulano, che mostra di aver tutti i numeri per emulare l’omonimo (“Ho uno sguardo di cose a cui piace stare lì un poco. | Lo zucchero, i piatti, e la promessa di tutto questo | quando qualcuno ride e c'è il cortile, | o piange, e tu gli parli, gli racconti in casa”). E chissà: dopo aver così intensamente esposto per primo se stesso alla bellezza della poesia, il pifferaio potrebbe finalmente decidere di metter fine a un altro e ben più imbarazzante parallelo. Quello fra sé e Ugo Straniero, il suo alter-nego poetastro.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 12 marzo 2005