Nella vita d’ogni giorno, il poetastro è una persona come tutte le altre. Magari non è un fulmine d’intelligenza, né un titano del buon gusto e del senso critico; magari si prende troppo sul serio, e pretende che lo stesso facciano amici e famigliari. Ma in linea di massima conduce un’esistenza assennata, bilanciando con un lavoro dignitoso l’insensatezza del suo hobby.
In versione diurna, il poetastro è un serio professionista, prevalentemente commercialista o avvocato: mestieri che già di per sé attestano equilibrio e ponderatezza. Certo, ce ne sono alcuni che si guadagnano da vivere facendo il giornalista, o addirittura il poeta: ma sono eccezioni, quindi non fanno testo. A parte questi casi estremi, è comunque difficile che un poetastro in fase Jekyll si comporti in maniera tale da indurre i parenti a interdirlo.
Poi però cala la sera, o arriva il week-end, e il poetastro entra in fase Hyde. Ovvero diventa un pirla. Non tanto per le cose che si mette a scrivere nella penombra della sua cameretta – ché se fosse questo il parametro per valutare l’IQ, ben pochi anche fra i poeti laureati avrebbero il coraggio di scagliare la prima rima – quanto per ciò che si rivela disposto a fare pur di pubblicarle, per l'ebetudine con cui si lascia abbindolare dai pataccari che mungono e illudono l’universo poetastro a via di premi, riviste, associazioni e accademie per filastrocchisti. (Breve precisazione: questo non vuol essere un contributo alla corrente e ricorrente querelle sui mille premi letterari italiani e sugli effettivi beneficiari della loro equivoca utilità; non vuole e soprattutto non può, per conflitto d’interessi evidente pur se mitigato dall’indubbia attenuante che il nostro “Premio Ugo Straniero per il peggior verso dell’anno” esiste solo allo stato patafisico).
Il poetastro, dicevamo, di fronte alle lusinghe dei piazzisti di premi e dei millantatori di pubblicazione perde tutta la propria sagacia feriale e diventa un pirla. E questo spiega come mai il giudizioso commercialista e lo scaltro avvocato che albergano in lui non lo mettano in guardia davanti a concorsi che puzzano di patacca lontano un miglio.
Prendiamo ad esempio il bando del “Premio di Poesia Lorenzo Montano”, intitolato al compianto poeta rondista e sontuosamente patrocinato da Regione Veneto, Università di Verona e un’altra manciata di enti sventatamente pubblici.
Si comincia con la promessa che all’opera vincitrice “sarà riconosciuta la pubblicazione” da parte di un editore che, guarda caso, altri non è che l’associazione culturale che organizza il concorso.
Si continua dichiarando che “la Giuria del Premio è composta dalla Redazione della rivista Anterem” (non badate al tripudio di maiuscole: i bandi per poetastri sembrano sempre scritti da un crucco). Rivista che, avendo bisogno di professarsi “tra le più autorevoli in Italia” e “oggetto di studio nelle principali università e nei licei” e “regolarmente recensita sulla stampa periodica, in un crescente consenso critico”, si conferma affatto irrilevante e sconosciuta, al pari dell’editore che la pubblica. Che poi è lo stesso che pubblicherà l’opera vincitrice. Che poi è lo stesso che organizza il premio. Che poi è lo stesso che nella premessa vanta di promuovere “la conoscenza di forme stilistiche che trovano nella necessità e nella bellezza le proprie ragioni”: la bellezza chissà, ma la necessità dev’essere di tipo assai prosaico, visto che per poter accedere al concorso si scopre occorra essere “soci onorari dell’Associazione Culturale Anterem”, il che significa sborsare un discreto obolo a titolo di quota sociale (comodamente esentasse, trattandosi di associazione culturale), così magari la segreteria del premio potrà finalmente permettersi un telefono fisso al posto dell’attuale numero di cellulare, che fa tanto biglietto da visita di idraulico.
Ma tutte queste cose il poetastro non le nota: lui nel bando vede solo sfavillare lo specchietto del Comitato d’Onore e della Giuria Critica, dove fanno bella mostra di sé i più bei nomi del presenzialismo rimaiolo. E così, abbacinato dai Gramigna, dai Sanguineti, dagli Squarotti e dagli altri ubiqui canzonisti da diporto, si affretta a compilar moduli e versare oboli, sognando di diventare come loro. Un Hyde privo di Jekyll.
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Smistano premi,
specchietti per poetastri:
con-giurati.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 29 gennaio 2005