Le disavventure poetastre di un magistrato, o del perché si prediliga sputar versi anziché sentenze

Giunto al termine di questa seconda raccolta poetica di Francesco Amato (duecentoquarantatré pagine per duecento poesie, edite da Spirali al non modico prezzo di 20 euro), lo stremato lettore, rimbalzato come in un flipper da un pensiero banale a uno confuso, si ritrova vuoto e interdetto.
Vero è che il libro ha l’indicativo titolo di Foglie sparse, ma anche le più disperse fronde liriche dovrebbero lasciare qualcosa in chi le legge: un’idea, un’emozione, un messaggio. Invece qui niente: una piattezza concettuale pari solo a quella formale.
I pochi pensieri sono per giunta sbriciolati in modo da privarli d’ogni speranza di incidere sul lettore: frastagliati, diluiti, polverizzati e sparpagliati in una mole di carta e inchiostro totalmente sproporzionata alla loro densità poetica. Ad averne la capacità, sarebbero bastati pochissimi versi e altrettanti fogli per esprimere sì arida vena poetica.
Vena in cui scorrono tali, e originalissimi, temi: il passato era più bello e sano, la dignità è un alto valore, la giustizia e la verità pure, la guerra è brutta e cattiva, la morte ci rende tutti uguali, l’ignara giovinezza che fugge lascia il posto alla vecchiezza tutta ricordi e occasioni perdute. Belle novità.
E non basta. “Amor ch’a nullo Amato amar perdona”, purtroppo: questo comminatore già di sentenze e oggi di versi non (ci) risparmia nemmeno la materia amorosa. Dedica liriche a leggiadre fanciulle di tempi che furono, narrando amori per lo più desolanti. Difficile dar torto alle sventurate, se l’Autore tentava di sedurle così: “E quando parlavi | le parole ascoltate | non erano quelle | che avrei voluto udire. | Ma ti assolvevo | per la tua bellezza”; qui di bellezza non v’è traccia, quindi nessuna assoluzione per parole che anche noi ci saremmo risparmiati. Ancora: “Era il canto malinconico | di una bella fanciulla | – immaginavo – | sola e appassionata. | … | La vidi, poi, | non giovane, non bella, | capelli ossigenati | – insignificante. | La sua certo non era | la voce del destino”; ah, la galanteria dei gentiluomini d’una volta!
Ogni speranza di trovare in Amato qualcosa di realmente poetico è perduta, ma almeno quando parla di cani riesce a cavare qualche cliché simpatico: il botolo che sfila incurante dei potenti (“ardita mascotte: un cagnolino | che ornato di gualdrappa colorata | i potenti non degna di uno sguardo”) e il bastardo d’occhi ridenti e nobili virtù (“Dedizione allegria mitezza | forza coraggio | ne attestano l’alto lignaggio. | È un cane bastardo”) sono i soli eroi di questa raccolta.
Poi tocca agli uccelli, e i problemi non sono più solo poetici. Si passa dall’incertezza di genere (“una taccola che si posa fiducioso [sic] sulla spalla”) a quella di razza (“pulcino di merlo”: animale inesistente, ché pulcini sono i piccoli dei gallinacei, mentre i merli appartengono a tutt’altra famiglia).
Esaurita grazie a un paio di gabbiani “dalle belle ali insozzate” anche la denuncia della barbarie bellica in Iraq e della sua mercificazione mediatica, must di ogni raccolta poetastra che aspiri a farsi rispettare, Amato vola alto. Elargisce moniti austeri (“Non cercare il senso della vita | ma dare un senso alla vita | bisogna”, che pare più un tributo a Bonolis che un’introspezione esistenziale); spiega strabilianti verità che altrimenti il lettore non penetrerebbe mai (“Il peso del corpo impedisce | di slanciarsi in alto | verso il cielo | non di guardare | il cielo”); azzarda una conversazione tra Pensiero, Riflessione e Grillo Parlante (“Anche se interessa | solo la mia famiglia | sapreste dirmi | perché vivono gli Ortotteri?”) di cui restano oscuri senso e scopo; conclude gettando nel mucchio ninfe e altre suggestioni mitologiche – roba che, si sa, fa sempre effetto.
A questo punto ci si chiede come mai un signore dall’onorata carriera di magistrato (e di autore di pubblicazioni giuridiche, stando al risvolto) voglia per forza disonorarsi con dei maldestri tentativi di fare il poeta. Per dare libero sfogo ai puerili tumulti che lo scuotono? Ma per quello basta la politica, non c’è bisogno di andare a importunare la poesia: si candidi, giudice Amato – vedrà che in Senato avrà più soddisfazioni e farà meno danni che in Arcadia.

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Rifà il poeta
reiterando il delitto,
giudice Amato.

Articolo di Benedetta Palmieri del 27 giugno 2007 per Poetastri.com

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